Attraversare il vuoto d’amore.
Chi è l’altro? Quanti altri significativi ci sono nella nostra vita? Quanti altri ci legano e ci vincolano? Qual è il percorso per incontrare l’altro?
Nella nostra formazione tutti siamo stati spinti a occuparci dell’altro, qualche volta anche precocemente ci è stato detto che “dobbiamo amare l’altro”. Ma cosa vuol dire? Come lo si impara?
Sono tante le domande che sorgono attorno a questo tema, come la psicologia ci può aiutare a evidenziarle, guardarle da vicino, scomporle, tentare delle risposte nuove, sempre aperte? Spesso si obietta che la psicologia può portare a una sorta di intimismo e di chiusura su se stessi. Penso che essa sia come le pietre che purificano il torrente: la psicologia purifica il percorso della spiritualità permettendole di fluire trasparente e fresca.
Chi è l’altro? Gli altri sono tanti. Fantasticati, immaginati, negati, sognati, desiderati. C’è l’altro simbiotico, l’altro persecutore, l’altro assente. C’è l’altro reale che ci delude, ci tradisce, si rivela diverso. Lo sperimentiamo soprattutto nelle situazioni di coppia, dove capita a un certo punto di pensare: “tu non sei come ti avevo pensato, sei cambiato, sei diverso!”. Tutti abbiamo la tendenza a fare riferimento a un altro significativo, tutta la natura è strutturata per diventare coppia attraverso i processi della vita. Per questo è estremamente importante il discorso sull’altro.
Sono tre le dimensioni importanti di questa relazione con l’altro: l’altro immaginario che fantastico simile a me, per cultura, per formazione, per lingua, per pelle, per interessi; l’altro reale che a volte mi delude e che neppure riesco a vedere nella sua diversità e l’altro interiorizzato nella mia esperienza di vita, con cui quasi ogni momento dialogo, a cui devo rendere conto, da cui mi sento giudicato, che è molto presente nella mia dimensione inconscia.
L’amalgama di queste tre dimensioni determina e struttura il nostro stile relazionale e comunicativo.
Faccio una parentesi per dire a quale problema tento di rispondere con queste mie riflessioni. Nella società, tra i nostri amici, nelle parrocchie, nella politica a tutti capita di avere a che fare con “l’ipertrofia dell’io” di alcune persone vittime di un terribile narcisismo, incapaci di incontrare veramente se stesse per incontrare l’altro. Sono persone che fanno molte cose buone però alla fine le distruggono risucchiandole in un “buco” nel quale la positività viene annullata fino a diventare negatività. Per la mia esperienza sia personale che professionale, conosco bene la formazione dei sacerdoti, spesso educati a una pseudo identità attraverso il modello dell’Alter Christus, nel quale si coprono fragilità, insicurezze, inconsapevolezza di se stessi e degli altri.
Quante persone che si occupano di volontariato, di attività benemerite, vengono prese da questo tarlo del narcisismo per cui la qualità del servizio e dell’offerta viene rovinata. Sto parlando di queste situazioni non per giudicarle ma per capirle, per domandarci se anche noi forse non facciamo parte di questo meccanismo e non soffriamo, nella nostra esperienza quotidiana, di questo problema.
Tutti abbiamo un bisogno enorme dell’altro, non possiamo farne a meno. Dobbiamo riconoscere che abbiamo strutturalmente bisogno dell’altro per essere noi stessi. Il problema è come ci rapportiamo all’altro: quasi sempre lo sfruttiamo, lo annulliamo, lo risucchiamo, lo facciamo scomparire. Raramente lo incontriamo veramente. è un meccanismo molto frequente: noi abbiamo bisogno di un altro simile a noi stessi. O lo ricerchiamo o lo fantastichiamo. È chiaro che non lo troveremo mai, ma tutti i nostri sforzi sono rivolti a pensare e obbligare l’altro ad essere simile a noi. Perché? Perché “l’altro veramente altro ci altera” come dice il filosofo Umberto Galimberti, ci scompone, non lo sopportiamo. L’altro veramente altro ci obbliga a entrare in contatto con il nostro “buco”, con il nostro niente, con la nostra povertà. Questo spiega bene il meccanismo che, senza volerlo, spesso adottiamo nei confronti dei cittadini stranieri.
Che fare? La nostra esperienza di vita nasce simbiotica per permetterci di muovere i primi passi nell’esistenza. Ma questa simbiosi noi la vorremmo perpetuare. Vorremmo sempre trovare accoglienza e riconoscimento come nella nostra infanzia, oppure se l’infanzia non è stata gratificante, siamo continuamente alla ricerca di un risarcimento. Ci deve risarcire la parrocchia, il marito, il lavoro, lo studio, la teologia, la politica. Tutto diventa un risarcimento che alla fine viene risucchiato nel vuoto strutturale della nostra esistenza. È necessario, anche se dolorosissimo, attraversare questo lungo percorso del vuoto, dell’abbandono, dell’assenza dell’altro. Se non ci passiamo dentro, se non viviamo fino in fondo il vuoto d’amore, non incontreremo il nostro desiderio, che muove la parte più essenziale del nostro essere, la parte più bella e inedita del nostro esistere che è sempre stata coperta dal desiderio dell’altro. Il vuoto ci obbliga a scoprire e ad ascoltare il nostro desiderio. Nel corso della vita l’uomo tende costantemente al compimento di se stesso, e può giungervi solamente attraverso l’altro, che possiamo scrivere con la “a” minuscola oppure anche maiuscola.
Concludo con un accenno alla bellissima parabola del Figliol prodigo. Non ho la pretesa di compiere una esegesi biblica, vorrei soltanto evidenziare il modo in cui essa rappresenta il tema dell’altro. La parabola non narra unicamente la vicenda problematica del figliol prodigo, ma racconta la storia di tutta una famiglia dove ognuno ha bisogno di ricollocarsi al proprio posto. È una famiglia che si deve destrutturare per trovare la sua identità, per superare la confusione, l’agglomerato unico che avvolgeva ogni cosa, persona e relazione. È bello pensare a questo ragazzo che va dal padre e gli dice “dammi la mia parte”. Gli chiede la vita, il necessario per vivere. Il padre non capisce e gli dà le sostanze materiali. Capita anche a noi nelle nostre famiglie di colmare di cose i nostri ragazzi, e infine di perderli.
Il figliol prodigo se ne va, deve attraversare tutto il suo vuoto. Alla fine cerca persino delle ghiande, ma per fortuna non le trova. È l’assenza a fargli incontrare il suo desiderio di relazione. Torna indietro alla casa paterna, ma in realtà il suo è un passo in avanti che tutti dovremmo compiere per riappropriarci degli altri significativi. Da questo percorso nasce un nuovo modo di relazionarsi tra i membri della famiglia, il narcisismo di morte che legava insieme i familiari si trasforma in un narcisismo di vita.
Concludo con una citazione tratta da un bel libro di Marie Balmary “Il monaco e la psicoanalista”. “La porta che ciascuno apre così frequentemente senza vederla, può essere attraversata solo con l’altro. Porta troppo stretta per uno solo, ma in cui due passano agevolmente. La parola tra non crea solamente nuovi pensieri, ma inventa anche luoghi d’incontro, appuntamenti. Un termine che utilizzavano i marinai per indicare il porto nel quale la squadra qualora si fosse dispersa si sarebbe ritrovata. Anche noi abbiamo bisogno di appuntamenti”.
Don Mario De Maio
(da “Oreundici” di febbraio 2009)