di Maurizio Maggiani in “la Repubblica” del 7 gennaio 2021
Sono un libertario, peggio, sono un anarcoide, peggio di più, riconosciuto come sedizioso di indole, in pratica un teppista ancora alla mia età non sopito. Eppure, da non crederci, provo rispetto, persino riconoscenza, per la giovane Repubblica in cui mio padre e mia madre mi hanno messo al mondo a un passo dalle macerie di un regime devastatore a cui erano sopravvissuti per un pelo. Questo nonostante tutte le tragedie, e le disgrazie, e le schifezze che di lì in poi ne sono venute.
Sì, rispetto e gratitudine, perché è alla Repubblica che devo il fatto puro e semplice di essere cresciuto sano e istruito. Tutto qui, ma questo è stato fatto. Quella Repubblica, l’unico bene che mi ha portato in dote mio padre, costruita con le mani sue, quella Repubblica fondata sulle fatiche, in una dozzina di anni, il tempo che ho fatto in tempo a crescere, si è liberata di ciò che poteva uccidermi, storpiarmi, asservirmi a una condizione di servile minorità: la tubercolosi, la poliomielite, il vaiolo, la difterite, l’analfabetismo. Già, tutto qui.
In quel tempo, ogni quartiere, borgata, frazione, anfratto e buco d’Italia aveva una scuola, nella scuola c’erano delle aule con un maestro e una stanza che si chiamava dispensario. Intanto che la maestra Fabbri ci insegnava come meglio sapeva, e comunque sapesse ci insegnava, ogni sei mesi ci metteva tutti quanti in fila davanti al dispensario, e un dottore, il dottorino, che arrivava su una Vespa dalla marmitta rotta e una barba che non riusciva ancora a farsi per bene, ci interrogava con lo stetoscopio bronchi e polmoni, ci faceva cacciare fuori la lingua e ci esplorava faringe e laringe, ci tastava le ghiandole, ci pesava e misurava, ci dava il ricostituente a tutti quanti e ai morti di fame tra noi, non pochi Cristo, non pochi, dava un biglietto. E con quel biglietto si presentavano un quarto d’ora prima della campanella nel seminterrato già sede dell’Opera Balilla e ora Patronato Scolastico, dove si sedevano davanti a mezzo litro di latte caldo, una rosetta e un paio di cubetti di orrenda cotognata ricca di vitamina, la Repubblica ci dava la colazione.
Mio padre era andato nella stessa scuola, era un morto di fame ma non era un Balilla, ragion per cui non aveva mai bevuto quel latte e addentato quel pane con la cotognata, intanto era cambiato quasi tutto ma non quel menù, adesso il biglietto lo davano anche a Giacinto che aveva il padre disoccupato, licenziato dall’arsenale militare perché l’avevano beccato con la tessera del partito comunista in tasca. E poi, quand’era il momento il dottorino ci faceva il vaccino, l’antipolio, l’antivaiolosa, l’antitubercolare, l’antidifterica. Ed eravamo contenti perché il dottorino ci timbrava e ci pungeva senza farci male, eravamo contenti perché sapevamo. Sapevamo perché la vedevamo con i nostri occhi la nostra fortuna; bastava esser nati uno o due anni prima, bastava venire da certe forre della montagna e essere come Lambruschi butterati in faccia di vaiolo, essere sciancati di poliomielite come Filippi, essere preso e sparire in un sanatorio, chissà mai dov’era, come Sauro. In quel tempo la tubercolosi era dappertutto, io stesso e mia sorella siamo stati presi via per un capello, e portiamo ancora il segno del suo passaggio, la piccola cicatrice che ogni volta che mi fanno un torace fa dire al radiologo, ah be’, lei è del cinquantuno.
Certo che ero contento, che se non c’era più il pericolo non ci sarebbe stata più nemmeno la tortura di andare a prendere l’aria buona in mezzo all’appennino in un paesello dove l’unica cosa che c’era da fare per un ragazzino era stare attento a non pestare le merde di vacca. Sinceramente non ricordo se farsi il vaccino fosse obbligatorio. Ricordo solo dei manifesti nell’atrio della scuola accanto a quelli con i disegni di tutte le bombe e le mine che i bambini potevano incontrare tra le macerie e gli incolti, giocarci e ammazzarsi, ricordo i francobolli della tubercolosi, per la sottoscrizione popolare della campagna vaccinale, ricordo che noi ragazzi si davano via per la strada e poi si faceva, informalmente, a mezzo con lo stato, perché sembrava più che lecito ai miserabili riuscire a prendersi ogni tanto una mela caramellata, un paio di stringhe di liquirizia, un mazzetto di duri duri.
Ma immagino che lo fosse perché non è che la maestra Fabbri ci metteva in fila per farci chiedere dal dottorino, ninin lo vuoi il vaccino? Non è che la sera a cena sentissi mio padre e mia madre discutere, cosa dici lo facciamo, non lo facciamo? Credo che per tutti loro, scritto o non scritto, fosse un dovere prima che un obbligo, e l’uno non è necessariamente l’altro, e il primo è anche di più perché è la libera e cosciente accettazione del secondo. Un dovere, né più né meno che andare a votare, lavarsi le mani prima di mettersi a tavola, lavorare duramente e bene, leggere sempre qualcosa. E salvare i figli, salvarli dalla miseria, salvarli dalla malattia, salvarli dalla guerra, come mio padre e i suoi fratelli costruttori della Repubblica avevano giurato davanti a Dio, a Lenin e a Matteotti.
Ricordo il terrore, dico proprio il terrore, di mio padre che mi ammalassi e l’identico terrore che non volessi studiare. Una Repubblica dei doveri quella, eppure non ricordo che fosse una Repubblica della mestizia; una repubblica delle ristrettezze, eppure non ho memoria che mi mancasse qualcosa di veramente necessario.
I poveri, mi rispondeva mio padre quando gli chiedevo se lo fossimo, sono quelli che non sanno darsi un destino. Forse una Repubblica arretrata e ignorante, forse erano ignoranti mio padre e mia madre, forse lo era la maestra Fabbri, forse anche il dottorino; forse è per ignoranza che alle medie il professor Troiano mi spiegava che Sabin era un eroe tale e quale Garibaldi; probabilmente non bastava a sollevarli dall’ignoranza che in casa di mio padre operaio e del suo compagno di lavoro Trippi ci fossero più libri letti e riletti di quanti oggi non ce ne sia intonsi in casa di non pochi ministri.
Eppure, arretrati e ignoranti e ingenuamente fiduciosi, e stupidamente convinti com’erano dei loro doveri, mi hanno protetto, mi hanno salvato. E colmi della loro sovrana cittadinanza hanno protetto e salvato la Repubblica più e più volte, e se ne sono andati abbastanza presto tutti quanti per risparmiarsi la mortificazione di constatare le macerie che ne sono rimaste.
Nella loro ignoranza ricordo bene come avessero in disprezzo quelli che davano a vedere che “la sapevano lunga”, una categoria in verità allora piuttosto smilza; quelli erano stupidi e basta, perché nessuno la sa mai abbastanza lunga, e venivano canzonati senza alcun rispetto, erano le macchiette del quartiere. Saperne abbastanza era quello che ci si poteva chiedere e ci si poteva aspettare, ed era quello di saperne abbastanza un dovere non poco faticoso, perché pretendeva una gran dedizione, molto parlarsi, molto ascoltare, molto pensarci su, e molta fiducia in chi dava fiducia, molto rispetto in chi usava rispetto.
Ora mi permetto la convinzione che quella Repubblica della dedizione viveva di una democrazia un po’ più decente delle sue attuali rovine così propense al facoltativo, facoltative le tasse, la fatica, lo studio, la consapevolezza, il vaccino, il bene, la dignità. E quel popolo arretrato e ignorante viveva di una condizione un po’ più signorile della plebe saputa e ciarliera che reclama di saperla troppo lunga perché le sia negata la libertà di essere quello che è. E mi permetto persino la libertà che ho ereditato dai costruttori della Repubblica di non avere nessun rispetto per la stupidità.