di don Angelo Casati (dallo scoiattolo Oreundici di gennaio 2020)
A volte mi viene da chiedermi se all’origine delle immobilità ecclesiastiche, all’origine di una chiesa restia a sconfinare, non ci sia anche questa ritrosia a lasciarsi condurre dalle donne, così come si lasciò condurre il Rabbi di Nazaret dalla donna dei cagnolini, da sua madre. Vedo e soffro la distanza. La distanza del vangelo.
Soffro a volte la sensazione, che nei fatti, al di là delle parole, nei confronti delle donne, permanga un pregiudizio, quel pregiudizio circa il puro e l’impuro, che Gesù scardinò quando rivendicò la purezza di ogni realtà vivente, attribuendo al cuore, e solo al cuore, la possibilità di rendere pure o impure le cose, di sporcarle o di illuminarle. Soffro la sensazione che nella chiesa, al di là delle parole, la donna sia in qualche misura ancora sospettata come la si ritenesse portatrice di qualcosa di imprevisto, di oscuro, come se la femminilità fosse abitata da una forza pericolosa. Non sarà anche per questo che le donne vengono per lo più celebrate dalla chiesa per la loro maternità, la donna madre, e non per la loro femminilità, la donna in quando donna? In quanto donna, secondo il racconto della Genesi, e non in quanto madre, lei con l’uomo sono immagine del Dio creatore. O non dipenderà anche da questo la fatica di concepire una sessualità che non sia legata a filo stretto con la procreazione, quasi che questa sia alla fine, lo si dica o no, la purificazione dell’inquietante femminile? Ancora una volta lontani dal Maestro che si ritrovò più volte a celebrare mani di donne che l’avevano unto e profumato e a criticare senza giri di parole l’accoglienza misurata e senza tenerezza degli uomini religiosi. Nella casa, ancora a Betania, in giorni che già odoravano la Passione, ancora una donna colse, sola fra tutti, una verità più profonda di quel Rabbi, lo unse di tenerezza e la casa si riempì di profumo. Dare spazio al femminile nella chiesa, a tutti i livelli, avrebbe come risultato, non ultimo nemmeno nell’importanza, un dilagare di profumo nelle nostre comunità ecclesiali, che così spesso e così pesantemente, corrono il rischio dell’appiattimento nella figura burocratica della istituzione, comunità senza calore, senza profumo. Un profumo che non abita le verità gelide né le distanze, abita mani che toccano e ungono: “La verità è ciò che arde. La verità non è tanto nelle parole, ma negli occhi, nelle mani, nel silenzio. La verità sono occhi e mani che ardono in silenzio” (Christian Bobin).