intervista pubblicata su Famiglia Cristiana n.15 del 16/04/2000 di ALBERTO BOBBIO
Don Mario De Maio, prete diocesano, a Roma aiuta le persone affette da piccoli e grandi disturbi: ansie, depressioni, crisi di identità. È un analista, ma non ha scordato di essere un confessore.
Malesseri, incompiutezze, mancanza di gioia, di vitalità piena, di fiducia: la piccola patologia del quotidiano. Ma anche disturbi di identità, ossessioni, attacchi di panico, depressioni gravi.
C’è un prete che cura la psiche, ascolta sogni e incubi e aiuta a capire cosa si muove nei cuori. Non è un confessore. È uno psicoterapeuta, un analista, che tuttavia non ha pensionato il confessore. Don Mario De Maio, sacerdote diocesano di Roma, studi teologici alla Gregoriana e di pastorale alla Lateranense, laureato in Psicologia, specializzato in psicanalisi, narra da anni come ricostruire ponti tra la vita e la psiche e tra la psicanalisi e la religione: «Posso dichiarare che dal Vangelo ho appreso il messaggio fondamentale dell’amore e dalla Chiesa ho imparato il dovere di amare il prossimo. Dalla psicanalisi ho imparato come liberare l’amore dalle angosce di relazione che ogni uomo si porta dentro».
È una strada difficile, piena di trabocchetti, di pareri contrari. Freud è stato temuto dalla cultura cattolica: sovvertitore e nemico della verità consolidata, accusato di minare le basi stesse della fede. Era considerato, insieme a Marx e a Nietzsche, uno dei “maestri del sospetto”. Di questi due la Chiesa ha smesso da tempo di avere paura. Per Freud, invece, il discorso è diverso e la psicanalisi resta una “pseudoscienza”, un misto pericoloso di determinismo e di irrazionalità.
«Come ho fatto? Ho distinto», risponde don De Maio. «Non mi piace il ricorso facile agli interventi psicologici, non mi piace il sincretismo tra spiritualità e psicologia. Per molto tempo il sacerdote ha gestito lo spirito e la psiche degli uomini. Oggi si deve tornare a una separazione molto netta. Non bisogna rincorrere la psicologia per creare consenso». Non è tuttavia un ponte fragile. Assomiglia a quelli della giungla, ricorda i manufatti di corde e liane che legano sponde profonde, ponti da Indiana Jones, solidi se fatti bene: «Difficile è camminarvi sopra», annota don De Maio, «senza imbarbagliarsi, scivolare, cadere».
Da anni don Mario, insieme ad altri pochi, ha messo in piedi una piccola associazione, “Ore undici”, un gruppo di riflessione per capire come la vita spirituale si combina alla vita psicologica e a quella biologica, e come, tutte insieme, caratterizzano l’esistenza dell’uomo. Non è una riflessione da poco, non è un’analisi tranquilla. Quel ponte sospeso balla su inquietudini ecclesiali e tante banalità.
Don De Maio è uno tenace: «Noi lavoriamo in silenzio: ripensare le tappe della nostra vita spirituale e verificarne oggi la qualità che stiamo vivendo. Si parte sempre da una condizione di risposta a un bisogno. La storia della nostra spiritualità è segnata dalle risposte che abbiamo cercato, risposte magiche, risposte rassicuranti, figure autorevoli da cui dipendere, immagini di Dio congruenti con questi bisogni. Tutto ciò ha aperto nuovi orizzonti, oppure siamo rimasti bloccati in situazioni che ci tranquillizzano? La nostra vita è più ricca di Dio? Ha spazi nuovi, tempi più lunghi?».
Sul divanetto verde davanti alla scrivania di don De Maio si sono seduti vescovi e sacerdoti, religiosi e suore, e anche tanti laici. Sono quelli che hanno creduto che l’esperienza psicanalitica non inaridisce la sorgente della propria spiritualità, anzi aiuta a verificare il nucleo fondamentale di un’autentica vocazione, cioè la personalità di un uomo e di una donna, complessa nelle sue linee di sviluppo e di maturazione. Perché a volte una vocazione, magari giovanile, può coprire difficoltà e dissociazioni, sviluppi nevrotici, disturbi di ruolo: accade per la vita consacrata, ma anche per il matrimonio.
«Esperienze religiose negative», osserva don De Maio, «possono rovinare la vita, far scomparire Dio dall’orizzonte. Noi cerchiamo di aiutare a rivedere Dio, favorendo la consapevolezza del bene e del male che ognuno si porta dentro». È il lavoro di chi leva le pietre dalla strada, oppure di chi costruisce ponti: ritrovare fiducia scomparsa, scoprire dentro qualità positive, dare fiducia agli altri, non avere paura degli altri e non rifugiarsi nell’iperattivismo, sintomo, spesso maniacale, della difesa dall’angoscia, tornare a credere nella solitudine, nella riflessione, nel silenzio come virtù.
Vi sono frasi che, ripetute, indicano problemi di identità, che vanno affrontati e curati con l’ausilio delle scienze umane. Sono indicatori di depressione, non di poca fede: “La Parola di Dio dice così, ma io non ce la farò mai”; “Se mi affido troppo a Dio, lui mi intrappola”; “Io non valgo niente e devo stare attento che gli altri non mi danneggino”; “Ho paura di Dio e va a finire che, quando arriverò davanti a lui, nemmeno mi capirà”.
Forse è chi è abituato a parlare che si rivolge ad un prete-psicanalista. «Vengono persone dotate di forte criticità. Sono quelli che si accorgono che la domanda di salvezza che pongono a un sacerdote normale provoca angoscia allo stesso sacerdote, oppure provoca da parte sua risposte direttive, salde, dove è chiara la paura del nuovo. La nostra piccola associazione crede che la religione è un processo di crescita, che la fede è ricerca, un percorso lento di liberazione, di apertura di spazi più ampi di relazione tra gli uomini, e tra loro e Dio».
Don De Maio ricorda il Vangelo, i passi in cui Gesù si occupa degli indemoniati e degli ossessi, i malati di mente di allora, malati gravi ma anche semplici nevrotici: «A tutti Gesù consentiva di ritrovare un’identità profonda. Non diceva: “Io ti ho salvato”, ma “la tua fede ti ha salvato”. È la persona che impara a camminare nella vita, ad avere accesso alla sua ricchezza e a Dio. Non dobbiamo difendere la gente dall’angoscia, costruire mura spesse e sicure, non dobbiamo dispensare le persone dal pensare ai grandi temi della vita e della morte. Dobbiamo aiutare a costruire responsabilità, che possono diventare orizzonti di salvezza. Chi crea relazioni, crea libertà».