da “Nel cuore dell’essere” di Giovanni Vannucci
«Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi.
Quando ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura. Ma io ora vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, perché abbiano in sé stessi la pienezza della mia gioia. Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’ io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’ essi consacrati nella verità». (Gv 17,11-19)
Le parole che ora vi ho letto fanno parte del capitolo diciassettesimo del Vangelo di Giovanni, capitolo che vorrei che voi leggeste di frequente perché è una delle pagine più grandi che la religiosità umana abbia mai saputo scrivere. E sono le parole di commiato che Cristo consegna ai suoi discepoli. Egli sta per dileguarsi e li affida al Padre. L’affidamento al Padre che Cristo fa dei suoi discepoli, e di tutti coloro che nel corso dei secoli avrebbero creduto in lui, è molto importante. E non so se ci abbiamo riflettuto mai a sufficienza, e forse non potremo mai rifletterci a sufficienza perché la nostra natura è portata a costruire continuamente delle realtà che non sono sempre la dimora del Padre.
Vedete, è questo il punto importante: Cristo non affida i suoi fedeli a una istituzione, non li affida a una dottrina. È l’unico maestro religioso – questo lo potete constatare leggendo la vita dei grandi geni religiosi apparsi nella storia dell’umanità – che non abbia consegnato dei modi di meditazione, dei modi di ascesi e neppure una dottrina ben precisa, come altri hanno fatto. Affida coloro che crederanno in lui al Padre, cioè a quella realtà misteriosa che è al di là di tutte le cose, che è all’origine e al termine di tutte le cose e che noi uomini non possiamo mai nominare senza ridurlo alla nostra piccolezza mentale di uomini.
«Li affido a Te, consacrali nella verità, siano una sola cosa, come Io e Te siamo una sola cosa»; e, vedete, in queste parole di Cristo, egli stesso scompare: noi siamo stati affidati alla presenza invisibile del Dio vivente. E Cristo si dilegua in questa realtà del Dio vivente: io sono una sola cosa con il Padre. E anche loro sono chiamati a divenire una sola cosa con il Padre. Se riflettete, vedete che questo concetto è molto importante per la nostra vita religiosa, per avere, nell’esistenza, quel discernimento che ci permetta di liberarci da tutte le sovrastrutture che noi, cristiani e non cristiani, abbiamo edificato attorno al mistero di Cristo. Perché Cristo è la vita, è eterno, e le sue parole sono valide ieri, oggi e domani, e oggi lo sono più di ieri e domani lo saranno più di oggi.
Il cammino dell’umanità verso le parole e verso le realtà che le parole di Cristo ci trasmettono è una continua ascensione, un continuo superamento di limiti, di staticità, che noi abbiamo edificato intorno a queste parole, perché egli è il Vivente e ci affida nelle mani del Vivente assoluto, che è Dio. E allora voi vedete bene che il cammino nostro, religioso, di cristiani, non può essere altro che un cammino verso un’avventura continuamente nuova nella vita. Non abbiamo verità da affermare, conosciute ieri o sancite oggi. Non abbiamo delle dogmatiche da annunciare, non abbiamo neppure delle precettistiche da portare avanti.
Siamo in cammino verso l’assoluto. E Cristo è il Vivente. Ecco, di questa verità dobbiamo persuaderci, senza scandalizzarci e senza fermarci in inutili domande, perché quando noi costruiamo attorno al cristianesimo una dottrina, oppure edifichiamo delle precise strutture, morali, giuridiche, istituzionali, noi ci ingabbiamo e non viviamo più la fede. Abbiamo delle credenze, cioè tutto un sistema di concetti espressi in parole, e le parole sono legate a delle determinate civiltà; abbiamo tutto un sistema di pratiche, di impostazioni banali della vita, che annunciamo e che pratichiamo e alle quali crediamo, ma ancora non abbiamo la fede.
La fede è credere che la nostra coscienza personale è chiamata ad andare sempre oltre, verso un infinito che si fa sempre più vasto e più sconfinato, verso un orizzonte che, mano a mano ci avviciniamo, si dilata e diventa sempre più immenso. E allora le nostre piccole credenze, le nostre piccole dogmatiche, le nostre piccole strutture, sono degli edifici di carta che vengono spazzati via da questo nostro procedere. E questo è un grosso pericolo nel quale siamo caduti in gran parte noi cristiani e anche noi cattolici.
Riflettete un momento sul termine che noi diamo alla nostra chiesa: cattolica. Vuol dire: universale. Se noi restringiamo la realtà della nostra chiesa al nostro pensiero latino o germanico o francese o inglese, non siamo più nella chiesa universale. La chiesa universale, la chiesa cattolica, è quella realtà umana che va sempre oltre, che ha sempre sete di infinito, che non si placa mai su delle posizioni raggiunte, perché sa che il suo destino è quello di andare oltre. E il cristiano cattolico vero è colui che non è mai soddisfatto di sé stesso e che, vivendo la fede, sa che la fede ha questa apertura verso l’infinito.
Quando ci solidifichiamo in determinate dogmatiche, in determinati credo, in determinate istituzioni, noi perdiamo questa ampiezza e intensità di fede, e il pericolo cui andiamo incontro può essere una credenza che è radicata nel passato, un falso concetto della tradizione che consiste nel ripetere oggi quello che è stato fatto ieri, nell’affermare che i valori raggiunti dalla cristianità di ieri sono valori eterni e immutabili. E un credere, questo, senza aver fede. E questo si verifica anche quando prendiamo le parole di Cristo come risuonano oggi a noi uomini moderni e le avviciniamo a delle conoscenze proprie del nostro mondo. Per esempio, io leggevo giorni fa, sul prospetto di un bollettino religioso – nel cui prossimo numero si parlerà della Parola e dell’interpretazione della parola evangelica – leggevo dell’interpretazione psicanalitica della parola di Cristo, dell’interpretazione materialistica della parola di Cristo, dell’interpretazione marxista della parola di Cristo, dell’interpretazione rivoluzionaria della parola di Cristo.
Questo è un impoverire una Parola che, nella sua realtà vivente rimane sempre oltre tutte le piccole realtà raggiunte nel mondo moderno. È un degradarla, perché la vita è sempre oltre. E, come vi dicevo, la parola di Cristo è vera oggi ma sarà più vera domani. E noi dobbiamo essere attenti a queste novità che la parola di Cristo domanderà a noi. Dio ci parla sempre dal futuro. E anche quando ci rivolge la parola nel presente, questa parola è protesa verso il futuro, come il chicco di grano che mettete nella terra è proteso verso la spiga che apparirà al momento della maturazione: la realtà della vita di questo chicco di grano è il domani, è la spiga. Così la nostra realtà di uomini non è l’oggi, è il domani. Se abbiamo fede, siamo aperti verso la sconfinata realtà del domani. Iddio ci parla oggi, ma per indicarci quelle mete che dovremo raggiungere domani e, una volta raggiunte, dovremo spiccare un salto per andare oltre.
Ecco il senso, mi sembra, delle parole di Cristo che ci affida al Padre, non a sé stesso. Il pensiero sul quale dobbiamo riflettere mi sembra importante: noi possiamo credere in Dio, credere nella chiesa, credere nei sacramenti, credere in Cristo, e non avere fede. Quando noi diciamo: io sono un uomo buono un uomo virtuoso, un uomo giusto, un uomo che ha amore verso il prossimo, adeguiamo la nostra realtà a concetti, a forme di vita che abbiamo ricevuto da altri. Ma il giorno in cui cominciamo a vergognarci di quello che siamo ora e ci incamminiamo verso qualcosa che ci porta oltre, sul piano religioso, sul piano quindi della vita profonda, ecco, in quel momento noi cominciamo ad avere fede. Possiamo credere in Gesù Cristo e non avere fede· possiamo non credere in Gesù Cristo e avere fede. L’uomo che aspira a quello che lui sente come valore essenziale, profondo dell’umanità, e tende verso tale valore, non importa che professi chiaramente la sua fede in Cristo: è un uomo che vive la fede.
Esaminiamoci su queste parole, su questo Vangelo. Cristo ci ha affidati al Padre, e chi può definire il Padre? Voi mi direte: ma allora, la chiesa come istituzione? La chiesa come istituzione diventa viva se noi siamo vivi; e non è una realtà opprimente se noi siamo vivi dentro la chiesa e se il nostro lavoro porta le sue mura verso orizzonti sempre più vasti e sconfinati. Allora la chiesa diventa vivente. Una pianta è viva perché continuamente passa da una forma a un’altra; noi siamo vivi fisicamente perché il nostro fisico continuamente passa di forma in forma, e noi siamo vivi religiosamente se la nostra religiosità è aperta verso l’infinito mistero di Dio.
Un giorno gli apostoli dicono a Cristo: «Accresci in noi la fede». Non gli dicono: fa che noi crediamo in te, ma gli dicono: accresci in noi la fede. Cioè metti in sintonia l’impeto della nostra vita con il tuo impeto sconvolgente; accorda la nostra vita che è portata sempre a chiudersi e a limitarsi, con la tua vita che non conosce né chiusure, né limiti, né tramonti, ma è un’alba continua, un superamento continuo di tutte le contingenze, di tutte le limitazioni, verso una vita più infinita e più vasta.
Sia così anche la nostra fede: apertura del nostro essere verso tutto ciò che ci porta oltre, oltre la banalità, oltre la miseria, oltre le competizioni, oltre le piccinerie, oltre tutte le realizzazioni di noi uomini. Allora vivremo veramente la fede del Cristo vivente che era ieri, che è oggi e sarà domani. E domani sarà più vera di oggi.