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Logica Carismatica/1: L’era della comunità infinita

di Luigino Bruni, su Avvenire del 21 agosto 2021

S’inizia qui l’esplorazione della «grammatica» dei movimenti e delle realtà comunitarie

Comunità è parola tornata centrale. Invocata nelle solitudini e nella malattia, cercata e agognata quando le ‘community’ virtuali ci hanno sfinito e sentiamo il bisogno di respirare. I suoi legami caldi e forti ci chiamano e non ci lasciano in pace.
La comunità sta però cambiando forme così rapidamente da non riconoscerla (quasi) più.
La metamorfosi è in atto ovunque, ma è molto evidente nell’ambito delle religioni e nelle Chiese, che senza comunità muoiono per diventare sterile consumismo psicologico ed emotivo. È infatti all’interno delle Chiese e delle religioni dove più si avvertono la nostalgia e la malattia della comunità, dove si ode forte il suo grido di richiamo, il suo SOS, il suo urlo.
Qualsiasi futuro dell’esperienza spirituale e religiosa non può oggi fare a meno di ripartire da una profonda riflessione, onesta e radicale, sulla comunità, con il coraggio di spingerla fino alle sue estreme conseguenze.
È quello che cercheremo di fare in questa nuova serie di articoli, nei quali esploreremo la grammatica delle comunità, in particolare di quelle che nascono da carismi spirituali. Brani di questo lavoro li abbiamo già imbastiti negli anni passati. Continuiamo il discorso prendendo spunto e ispirazione anche dalla tradizione biblica, miniera d’oro inesaurita perché inesauribile.

Oggi possiamo dire quasi con certezza che Gesù iniziò la sua attività all’interno del movimento di Giovanni Battista, dove restò per un periodo non breve (mesi, forse anni). Gesù non era solo uno dei molti battezzati dal Battista, era anche un battezzatore (Gv 3,22-24).
E diversamente da quanto avveniva nella contemporanea comunità essena stanziale di Qumran presso il Mar Morto (di cui ci è pervenuta la Regola), costruita attorno a norme di vita comune molto precise e strette, il movimento di Giovanni era una realtà fluida, nomade, provvisoria, dove le persone venivano e andavano senza una vera e propria vita in comune.
Chi si avvicinava al Battista si preparava al battesimo e una volta battezzato iniziava una vita nuova nel suo ambiente, o altrove. Il battesimo lo liberava per spiccare il suo proprio volo libero.
Quando nei primi secoli cristiani iniziarono a fiorire i monasteri, questi imitarono Qumran (magari senza conoscerlo), non il movimento del Battista, né quello dei primi decenni cristiani.
Chi entrava in un monastero diventava membro di una istituzione grazie a un vincolo molto forte di appartenenza. Si legava corto, molto corto.
Secoli dopo nacque il movimento francescano, e realizzò qualcosa di radicalmente diverso dal monachesimo: non una vita comunitaria residenziale, ma mendicante, non la centralità della regola, ma della ‘forma di vita’.
Francesco e i suoi compagni somigliavano moltissimo a Gesù, ma somigliavano molto anche al Battista. I frati non erano monaci più semplici e poveri: erano qualcosa di nuovo e di diverso. Nessuno, all’inizio, confondeva le loro comunità coi monasteri, era impossibile.
Il secondo Novecento ha conosciuto una nuova ‘età assiale’ dei carismi della Chiesa, paragonabile al Duecento mendicante.
Nuovi movimenti e comunità hanno portato importanti innovazioni (per esempio: protagonismo del laicato, dei giovani e delle donne), ma per i membri più impegnati (o ‘consacrati’) il paradigma di riferimento è restato quello dei monaci e degli altri ordini religiosi (nei secoli diventati via via più simili ai monaci), tanto che ne ripresero anche i tre voti.
Innovarono, ma poco nelle forme di vita comunitaria e nel rapporto individuo-comunità. Non stupisce allora che i movimenti e le comunità nati e fioriti solo pochi decenni fa, oggi fronteggino la stessa crisi degli ordini religiosi tradizionali.
Certo, hanno ancora qualche vocazione in più, una età media un po’ più bassa, qualche giovane attorno; il trend è però lo stesso, solo traslato di qualche anno. Perché? Per molte ragioni, lo sappiamo.
Ma dobbiamo riflettere su un elemento specifico e puntuale. Molti movimenti spirituali della seconda metà del Novecento si sono concepiti in forte continuità con il passato. I loro fondatori erano figlie e figli della Chiesa e della società del loro tempo, e in perfetta buona fede hanno messo il vino nuovo dei loro carismi in otri organizzativi e istituzionali vecchi.
E così, di fronte ai cambiamenti epocali di questi ultimi due-tre decenni, i nuovi movimenti e comunità sono poco capaci di rispondere alle nuove sfide e alle nuove esigenze spirituali. Le loro innovazioni hanno subito una obsolescenza molto rapida, al punto che a un osservatore esterno una comunità di vita consacrata di Cl o di focolarini oggi non appare sostanzialmente diversa da una casa salesiana o da una comunità di suore paoline.
Da qui un primo messaggio: le vecchie e nuove comunità desiderose di futuro dovrebbero iniziare a prendere molto più sul serio l’urgenza di un cambiamento importante della vita comunitaria.
E invece la fanno poco, credendo che il rinnovamento necessario consista in un ritorno al carisma dei primi tempi, o in una nuova radicalità spirituale.
E così investono le poche energie residue in battaglie secondarie che poi diventano le uniche – quando le forze in campo sono poche – sbagliare battaglia diventa fatale.
Servono nuove forme di vita comunitaria, più simili al movimento del Battista che a Qumran. Ma non è semplice capirlo, perché la scarsa ‘domanda’ di vita comunitaria oggi proviene spesso da persone fragili in cerca di appartenenze forti, attratte dal ricordo delle comunità di ieri.
Tuttavia, nel nuovo ecosistema spirituale del XXI secolo sopravvivono solo realtà più liquide e meno strutturate, decentrate e meno compatte, delta non estuario, che non aggregano le persone tramite le regole e i vincoli giuridici, ma con la forza del messaggio del carisma e dell’esperienza concreta.
Più tenda e meno palazzo, più accampamento e meno istituzione, più spirito e meno legge, più ospiti e meno padroni, più provvisori e meno stabili, più promesse e meno voti.
Comunità dove le persone sono aiutate a raggiungere una condizione soggettiva di libertà e quindi di autonomia dalla stessa comunità, che non cercano una identificazione totale e totalizzante con il carisma comunitario.
Perché quando accade (ed è accaduto troppo spesso) arriva presto il giorno nel quale la persona a forza di dire ‘noi’ non sa più dire ‘io’ e quindi non sa più rispondere alla domanda cruciale: ‘ma io chi sono?’.
Ieri ‘sono un frate’ era una risposta sufficiente. Oggi non più, non perché è diminuito il carisma di Francesco, ma perché la storia, fecondata anche dal cristianesimo e dai suoi carismi, ha aumentato le persone e la loro coscienza.
E così al ‘sono un frate’ (che resta) va affiancato qualcos’altro, un qualcosa di intimo che nessuna comunità può offrire al nostro posto, e se lo fa crea nevrosi e burn-out.
La domanda cruciale allora diventa: è possibile dar vita a comunità composte da persone libere e autonome evitando però il disfacimento della comunità stessa?
La domanda non è retorica, perché tocca il primo vulnus delle comunità di ieri, che per sopravvivere in quanto comunità dovevano ridurre l’autonomia dei propri membri.
L’origine della parola latina communitas oscilla tra due etimologie diverse ed opposte: cum-munus, cioè dono comune, e cummoeni: mura comuni.
Le comunità (a partire dalla famiglia patriarcale) hanno edificato le loro costruzioni collettive usando proprio i mattoni della poca o inesistente autonomia dei propri membri.
Liberamente ciascuno donava la propria libertà, che una volta donata non c’era più, come in tutti i doni veri, e quei doni finivano per costruire mura per ‘proteggere’ quei doni.
Le comunità alzavano attorno alle loro persone barriere all’uscita molto alte. Così le persone entravano e quasi mai uscivano (se non a costi altissimi, per le donne insostenibili). Mura fisiche, spirituali e psicologiche, tanto che quella volta che la porticina restava aperta l’uccellino restava dentro la gabbia non avendo la forza di spiccare un volo in un mondo troppo ignoto, e magari da quella porta entrava il gatto.
Le comunità di oggi vivranno se abbasseranno le barriere fino ad azzerarle, trasformando le mura in ponti, perché sarà su quei ponti dove le nuove vocazioni potranno entrare.
C’è un urgente bisogno di una nuova povertà, quella che si esprime come rinuncia al possesso delle persone, la povertà più difficile da vivere nelle comunità, perché le persone sono l’unica loro ricchezza: e più si vive la povertà dei beni più cresce la non-povertà delle persone. Vivranno le comunità che sanno abitare sull’orlo del proprio precipizio.
Una buona comunità carismatica nel XXI secolo può solo essere comunità tragica, che va a dormire ogni sera non sapendo se domani si risveglierà ancora comunità, e ogni mattina ringrazia perché c’è ancora.
Facendo propria questa regola aurea: se vuoi avere persone generative, creative e libere devi generare una cultura dove le persone sono talmente libere da non poterle controllare negli aspetti più importanti della loro vita.
Devi imparare a vivere in mezzo ad un grande via-vai di gente, in entrata e in uscita; perché generare persone libere significa metterle nelle condizioni di potersene un giorno anche andare via.
Le comunità, soprattutto quelle spirituali e ideali, dovrebbero porsi come loro obiettivo formare persone che non restino oggi per gli impegni presi ieri, ma per i sogni di domani.
È il futuro, non il passato, lo spazio delle promesse capaci di liberare davvero le persone. Non si resta ricordando un passato che ci ha imprigionato, ma immaginando un futuro che continua a liberarci e a liberare gli altri.
E i ‘per sempre’ che fanno vivere bene sono quelli che guardano avanti, perché quelli che guardano indietro sanno creare solo statue di sale.
Un buon fondatore di comunità – ma anche un genitore, un dirigente o un docente – dovrebbe gioire quando vede le ‘sue’ persone migliori spiccare il volo, e non consumarle per i propri (importantissimi) progetti.
Tanto che un indicatore della qualità etica e spirituale di una comunità carismatica è il rapporto tra le persone eccellenti che ci sono passate e quelle che ci sono rimaste per lungo tempo: più è alto, più alta è la qualità; più è vicino a uno, più siamo dentro comunità narcisistiche.
È sempre molto triste vedere leader circondati per molto tempo dai propri allievi migliori, a volte fino alla pensione – ed è ancora più triste vedere quegli allievi migliori di ieri spegnersi negli anni per mancanza di aria aperta e orizzonti larghi.
Un giorno, indefinito giorno, Gesù di Nazareth lasciò il movimento del Battista per seguire la sua propria vocazione, per far nascere la sua comunità diversa.
La ‘comunità’ libera di Giovani fu terreno così fertile da generare la libertà infinita di Gesù. Il Regno dei cieli è il luogo delle comunità in-finite.

l.bruni@lumsa.it