Cento anni fa nasceva il grande educatore brasiliano che lottò per «una pedagogia degli oppressi» e fu perseguitato dal regime. Ancora oggi Bolsonaro ne insulta la memoria
di Paolo Vittoria in “il manifesto.it” del 20.09.2021
In occasione del centenario dalla nascita di Paulo Freire (Recife, 1921 – São Paulo, 1997), nonostante le iniziative che si moltiplichino a livello mondiale, o forse proprio in ragione di esse, lo sport preferito della famiglia Bolsonaro sembra essere insultare la memoria dell’educatore brasiliano, sfoggiando definizioni come «energumeno» e, in senso ovviamente dispregiativo, «idolo della sinistra». In realtà, le colorite espressioni utilizzate dall’ex ufficiale militare sono indicative di una semplificazione esasperata che tende a cercare il capro espiatorio con l’intenzione di sviare l’attenzione dai clamorosi disastri combinati dal suo governo. Suo malgrado, Freire si è trovato a essere utilizzato come ragione di tutti i «mali», in particolare nel campo scolastico e universitario.
DA UNA PARTE, ridicolizzare il settore dell’educazione pubblica è utile a lasciare terreno libero all’iniziativa privata più spregiudicata, dall’altra dare dell’energumeno – letteralmente forsennato, invasato, ossessionato, addirittura indemoniato – a un educatore umile e profondamente sensibile come Paulo Freire, attecchisce con efficacia su quella larga scala di settori – non proprio moderati – che traghettano in modo inquietante verso scenari da inquisizione.
Freire, da parte sua, qualche decennio prima aveva utilizzato un’espressione che potrebbe essere calzante per descrivere la mentalità che emerge dalla narrativa dei suoi attuali accusatori: la «coscienza ingenua» che «rivela una certa semplicità, tende ad una faciloneria nell’interpretazione dei problemi, affronta le questioni con ingenuità, non si approfondisce nella causalità del fatto stesso». Oltretutto metteva in allerta su come la coscienza ingenua potesse degenerare in una dimensione massificata o fanatica, che attualmente possiamo ritrovare nel mondo delle fake news, del settarismo, della potenza del falso cavalcato dall’estrema destra mediante discorsi in cui la propria fragilità del rapporto causa-effetto, e la conseguente mancanza di senso, risulta essere persuasiva per chi non abbia volontà o intenzione di comprendere i fenomeni in modo approfondito.
D’altra parte, il richiamo di Paulo Freire a una necessità esistenziale, addirittura all’imperativo della speranza, risuona molto più forte di un accorato appello sentimentale e fa ancora paura: perché la speranza non è un’attitudine romantica, ma la radice concreta di un metodo fondato sulla denuncia di condizioni di oppressione e la conseguente organizzazione politica per superarle.
TALI AZIONI RIFLESSIVE e trasformatrici provocano interpretazioni di senso, letture del mondo, punti di vista fino a quel momento inediti. Paulo Freire non sarebbe stato esiliato dalla dittatura militare se il suo metodo di alfabetizzazione, inserito in un sistema politico-educativo più ampio, non fosse stato davvero generatore di trasformazione nella storia: «La speranza, come necessità ontologica, deve ancorarsi alla pratica».
Non è un caso che nelle iniziative per il centenario (in Italia tra i promotori ci sono la Rete di cooperazione educativa, Fondazione Basso, Popoli in arte, Istituto Paulo Freire, Rete Freire-Boal, Educazione aperta, Società italiana di pedagogia) si fa continuo richiamo al verbo Esperançar, il cui significato rimanda al fare pratica della speranza, a un’azione più che al desiderare in sé. Il suo pensiero spaventa perché trova reale corrispondenza in esperienze di movimenti popolari, rurali e urbani, le comunità di base, le donne contadine, lavoratrici e lavoratori che, nell’essere soggetti di un processo politico di educazione popolare, costruiscono quello che ancora non c’è, ma può essere creato: l’inedito possibile.
AL TEMPO STESSO, negli incontri, i dibattiti, le pubblicazioni che scaturiscono dal centenario emerge con forza come re-incontrare Freire non significhi solo attraversare la linea del tempo. «Non voglio essere seguito, voglio essere reinventato», diceva l’educatore brasiliano. Le sue esperienze segnano un percorso concreto di ricerca e di superamento storico di un modello da lui stesso definito come «educazione depositaria» che non solo risulta ancora dominante, ma si è perfino rafforzato con l’avanzamento del capitalismo. Sistema in cui non si è abituati a dialogare, finendo per smarrire la capacità di domandare, sorprendendosi in una crisi profonda generata dall’accettazione passiva di una realtà impoverita dalla mancanza di interesse per altri punti di vista.
SI DESCRIVE LA DIDATTICA mediante «crediti» e «debiti», espressione quanto mai calzante per il sistema finanziario, ma non altrettanto per un contesto educativo; si definiscono scuola o università «agenzie formative»; si utilizzano con disinvoltura vocaboli come «efficienza», «produttività», «risorse umane», «spendibilità». Nel campo della pedagogia critica, ispirata dal pensiero di Freire, si avverte la determinazione crescente a superare le tendenze tecniciste dei modelli formativi per aprire percorsi di una cultura politica e educativa in grado di andare oltre il capitalismo, di smascherarlo nei suoi lati occulti e distruttivi. Si intende che non c’è speranza al di fuori di una lotta politica che crei modi di vivere in netta contrapposizione al sistema dominante: l’agroecologia, approcci cooperativi al lavoro, la lotta al caporalato e alle mafie, politiche di accoglienza e solidarietà in grado di rileggere il fenomeno delle migrazioni, reti di informazione permanente, teatro degli oppressi, ecofemminismo.
Esperienze e pratiche politiche che vanno controvento, ma individuano il loro centro di gravità nella mobilitazione e nell’immaginazione politica perché «quando non c’è più spazio per l’utopia, per il sogno, per la scelta, per la decisione, per l’attesa nella lotta – che avviene solo quando c’è speranza – non c’è più spazio per l’educazione. Solo per l’addestramento».