Lavoro realizzazione umana
portare letteratura, filosofia, cinema nelle aziende migliora la qualità delle relazioni e del lavoro
di Matteo CornacchiaLa fioritura umana – cioè l’eudaimonia di Aristotele – non va cercata dopo il lavoro, come accadeva ieri, perché l’essere umano incontra la sua umanità mentre lavora. «Di qui l’urgenza di iniziare a elaborare un concetto di lavoro che vada oltre l’ipertrofia lavorativa tipica dei nostri tempi (il lavoro che riempie un vuoto antropologico crescente) e che permetta di declinare l’idea di libertà del lavoro, cioè la libertà di scegliere quelle attività che sono in grado di arricchire la mente e il cuore di coloro che sono impegnati nel processo lavorativo».
Luigino Bruni e Stefano Zamagni, nel brano citato (L’economia civile, Il Mulino, pp.22-23), identificano l’eudaimonia con l’autorealizzazione virtuosa attraverso comportamenti etici e sociali in un contesto di convivenza civile.
Proprio perché “bene supremo”, la fioritura umana dovrebbe essere il fine ultimo di qualsiasi attività, una condizione esistenziale capace di connotare ogni situazione o circostanza nel senso della pienezza umana.
Tuttavia è arduo immaginare un concetto così alto e nobile calato nei contesti di lavoro e, in particolare, nel mondo aziendale: per come vengono descritte le attuali dinamiche interne alle imprese, nella cui natura è inscritta la necessità di fare utili e generare profitti, l’effettiva disponibilità di spazi o momenti per coltivare la fioritura umana sembra essere più un’aspirazione ideale che una concreta possibilità. […]
L’idea che ci si possa realizzare umanamente nel lavoro, al punto da vivere con serenità la propria esperienza professionale, contrasta con il senso di frustrazione, con le tensioni e con la tendenza all’omologazione che, invece, sono originati da condizioni occupazionali e climi organizzativi sempre più instabili, soprattutto in alcuni settori del mercato produttivo. In uno dei romanzi più rappresentativi della letteratura industriale del secolo scorso, La chiave a stella, Primo Levi scriveva che stare bene al lavoro e arrivare fino al punto di amarlo è la più concreta approssimazione alla “felicità sulla terra”, salvo ammettere che questo privilegio è conosciuto da pochi, per di più solo in istanti singoli e prodigiosi donati dal destino.
Ecco perché la ricerca della fioritura umana, anziché essere un modus vivendi, sarebbe ormai relegata a spazi sempre più angusti e intimi, da ritagliare dopo il (lungo) tempo lavorativo: funzioni esistenziali fondamentali, come la cura di sé o la possibilità di dare espressione alle proprie passioni, vengono tenute distinte dalle prestazioni professionali, contribuendo ad alimentare una concezione dicotomica, che vede la dimensione della persona separata da quella del lavoratore. […]
Dei tanti luoghi di lavoro, l’azienda, per ragioni inscritte nelle specificità di una cultura organizzativa, è fra quelli dove è più marcata la tendenza a distinguere l’efficienza professionale dalla vicenda umana e soggettiva che la rende possibile. Questo aspetto risulta evidente anche nelle modalità con cui, il più delle volte, la formazione è declinata, secondo parametri di utilità e nell’interesse del processo produttivo.
Anche all’interno delle aziende, è però possibile un approccio radicalmente diverso alla formazione, il cui fine non risiede nel miglioramento delle prestazioni individuali o collettive, ma nel farsi carico delle trame umane sottese a qualsiasi attività professionale.
Nel riconoscere che tutte le organizzazioni sono anzitutto costrutti sociali, ovvero insiemi di persone, non è possibile ignorare le relazioni informali che le persone hanno fra loro, i loro carismi, le loro fragilità, le loro biografie. Il focus si sposta dunque su quelle componenti, soggettive e personali, che i ritmi produttivi tendono a limitare quando, in realtà, non sono affatto irrilevanti nel determinare i risultati complessivi di un’impresa.
La formazione necessaria a “coltivare la fioritura dell’umano” si avvale di apporti disciplinari – le humanities – abitualmente estranei alle logiche di profitto. […]
Numerosi appelli lanciati tanto a livello internazionale (Martha Nussbaum, Helen Small, Louis Menand, Geoffrey Harpham), quanto nazionale (Nuccio Ordine, Roberto Esposito, Alberto Asor Rosa, Ernesto Galli della Loggia) assegnano alle humanities un valore formativo che non è determinato dalla spendibilità dei titoli di studio o dall’utilità professionale dei saperi, ma è associato a disposizioni “vitali” come il pensiero critico, la creatività, la capacità di argomentazione logica, l’attitudine a leggere la realtà attraverso visioni sistemiche (e plurali) e mai particolari (e soggettive). […]
L’idea di dare accesso alla cultura umanistica nelle aziende ha illustri precedenti, tra i quali si ricorda Adriano Olivetti e la sua originale visione dell’impresa nella società. «L’uomo che vive la lunga giornata nell’officina – disse Olivetti all’inaugurazione della fornitissima biblioteca aziendale – non sigilla la propria umanità nella tuta di lavoro»: farsi carico di quella “umanità” era un onere che non avrebbe mai dovuto essere subordinato alle pur legittime ragioni del profitto. La scelta di affidare funzioni strategiche dell’organizzazione aziendale a noti intellettuali di formazione umanistica, rientrava nella visione plurale e comunitaria che Olivetti aveva tanto della fabbrica quanto della società.
Più recentemente, un progetto di humanities in azienda realizzato nel 2016 in un’azienda metalmeccanica della provincia di Udine, grazie a un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Trieste, ha fatto sì che docenti di pedagogia, storia contemporanea, letteratura italiana, letteratura inglese, storia del teatro e filosofia siano riusciti a trasmettere a ingegneri strutturisti, commerciali e operai l’utilità di saperi inutili.
Il testo è tratto dall’introduzione dell’autore a Le humanities in azienda, Franco Angeli, 2018.