da “Il sacrificio interdetto – Freud e la Bibbia” di Marie Balmary
Un uomo ha tre figli. Chiama il primo Abram, ‘padre alto’, il secondo Nacor, dal nome del proprio padre, il terzo Aran, con una parola che significa ‘montagna’ nella sua prima sillaba (ed eventualmente ‘santuario’ . Così io parlerò di Terach, padre di Abramo, figlio (e padre) di Nacor. È il primo a dare ad un suo figlio il nome del nonno del bambino. Fino a quel momento ogni generazione aveva visto nomi nuovi. Posso suggerire una ragione a questa prima ripetizione? Nella successione delle generazioni a partire dal diluvio la vita tende a diminuire di durata. Quale che sia il senso ancora misterioso di queste cifre favolose (Noè visse 950 anni, Sem 600 anni, suo figlio 438 anni, suo nipote 433…), la durata della vita passa, in otto generazioni, con una diminuzione praticamente regolare, da 600 anni a 148 anni. Mentre l’età in cui l’uomo diventa padre ritarda bruscamente, passando dalla trentina alla settantina. Così Terach è forse il primo a avere avuto un figlio dopo la morte di suo padre; questa ipotesi non può essere né confermata né infirmata dalle cifre date nel testo. Ma si può pensare che Terach abbia dato al suo secondo figlio il nome del nonno in quanto costui era morto da poco, cosa che non succedeva finché i nonni vivevano ben oltre la nascita dei loro discendenti.
Prima ripetizione di nome; il fanciullo accolto come ‘un fantasma’, secondo l’espressione di Freud, apparirebbe per la prima volta. Una generazione separa tuttavia i due Nacor. Il secondo è il nipote del primo. Questo nipote, ci dicono, sposerà sua nipote Milca (= regina), figlia del suo giovane fratello. Non è l’incesto fratello-sorella, né padre-figlia; vi è qui ancora uno scarto, figlia del fratello.
Abram invece, primo dei tre figli di Terach, sposa una donna chiamata Sarai (‘mia principessa’) di cui apprenderemo in seguito (Gn 20,12) che è una quasi sorella, pure figlia di Terach, ma di madre diversa da quella di Abram. Anche qui, scarto minimo ma esistente.
Se la vita diminuisce in durata, se le alleanze si avvicinano alla confusione, i nomi invece crescono: ‘padre alto’, nome del nonno, ‘montagna’ (luogo di Dio, da cui santuario?); ‘principessa’ in una generazione, ‘regina’ nell’altra. La vita non discende più tanto bene; non si sta forse perdendo la direzione, il ‘senso’ della vita che vuole che un figlio non sia un padre per suo padre? C’è qualcosa di Babele in questa salita verso il cielo. Se questa risalita dei nomi va contro la vita, allora la morte deve fare la sua entrata. Purtroppo essa è davvero pronta all’appuntamento, il terzo figlio muore. Lo apprendiamo dall’inizio. Ecco il testo (Gn 11,27-29, Chouraqui, L’Univers de la Bible, éd. Lidis, 1982 o D.D.B., 1985).
(27) Ecco la discendenza di Terach:
Terach fa nascere Abram, Nacor e Aran,
Aran fa nascere Lot,
(28) Aran muore di fronte a Terach, suo padre,
in terra della sua nascita a Ur Kasdim.
(29) Abram e Nacor prendono per sé due mogli.
Nome della moglie di Abram : Sarai,
Nome della moglie di Nacor: Milca figlia di Aran,
il padre di Milca e il padre di Isca.
Muore un uomo, Aran. In questo mondo egli non ha fatto che una cosa, stando al racconto: ha trasmesso la vita; ma non ha visto la generazione dei suoi nipoti. E questo è eccezionale nel racconto biblico. Aran muore ‘di fronte a suo padre’, nel luogo in cui è stato generato, fatto mai riportato prima. Un figlio che muore prima di suo padre, che muore nel luogo in cui era nato: la vita si inverte. Non è come un ritorno alla matrice, al di qua della vita e non al di là? La vita si smarrisce, manca il suo scopo; Françoise Dolto chiama questa realtà ‘de-vivere’ [dévivre]: cessare di vivere ma non morire (passare al di là). L’uomo ‘de-nasce’; nel luogo da cui è uscito, la sua nascita è annullata. Aran muore ritornando al grado zero della vita.
La morte è arrivata proprio là dove la vita si era perduta. Perché ora, e come potrebbe esserci nuova nascita? Logica della vita e della morte nel loro temibile rigore, ecco il versetto seguente:
(30) Ed è Sarai, sterile, per lei niente creatura.
Il figlio di Terach era ritornato verso la matrice della madre. Dalla matrice della figlia non esce nulla. È la fine della storia, la vita si è ridotta, poi annullata, ora non ha nemmeno più luogo.
Terach non avrà un discendente dal suo primogenito, Abram. Ironia di questo nome di ‘padre alto’ per il primo uomo la cui moglie è sterile. Il nome della moglie è SARA-I, ‘principessa di me’. Di chi, questa principessa? di suo padre che l’ha così chiamata? È ancora un nome alto, ma nel suo nome, ciò che dovrebbe distinguerla, il pronome, la lega a colui che l’ha chiamata. Non le si è dato un nome, l’hanno legata a. Che posto c’è in lei per se stessa? Il matrimonio non la libera: suo padre è anche suo suocero; lo stesso uomo è ancora padre e suocero di suo marito. Quattro volte legata a colui che l’ha chiamata sua.
Ho passato troppo tempo a leggere e rileggere la storia di Edipo per non riconoscere la parentela delle situazioni. Uomo giovane che muore e donna che non partorisce più. Nel clan di Terach, il patriarca, nella città di Edipo, il re, hanno luogo gli stessi eventi, o piuttosto, si potrebbe dire, si ha la stessa assenza di eventi, di quegli eventi per eccellenza che sono la vita nuova e il raggiungimento della propria fine.
Da entrambe le parti, a Ur e a Tebe regna l’endogamia. Tuttavia, da una parte, c’è la tragedia quasi totale: infanticidio (Edipo è esposto, appena nato, alla morte), parricidio (Edipo uccide Laio), incesto (Edipo sposa la madre Giocasta), suicidio (Giocasta), grave mutilazione (gli occhi lacerati di Edipo), duplice omicidio (i figli di Edipo si uccidono l’un l’altro), condanna a morte (lo zio condanna Antigone, figlia di Edipo); su sette persone cinque muoiono senza arrivare alla vecchiaia.
Così quanto avviene nel clan di Terach è paragonabile solo alle disgrazie dei sudditi di re Edipo e non direttamente alle sue. In realtà a Ur rimane ancora dappertutto un po’ di distanza: l’uomo non sposa la figlia, è sua soltanto per il suo nome; il fratello non sposa che la sua sorella a metà, un altro, solo sua nipote, il terzo muore nel luogo che rappresenta sua madre (luogo della sua nascita) e di fronte a suo padre, ma non sposa la prima, non uccide il secondo. Qui a Ur di Caldea siamo al grado zero della vita (là, in Grecia, a meno uno) .
La disgrazia è già lì, quella che viene da sola, dal corpo, senza crimine, senza violenza . Ma resta ancora uno scarto, o meglio un mezzo scarto. Non sono congiunti al punto di avere un solo nome, un unico posto per giacere, un solo trono per due. Ma sono già troppo prossimi per non soffocare la circolazione della vita.
Nella casa di Edipo, la vita è (quasi) perduta; nella sua città come qui a Ur essa è solo malata, malata da morire ma non ancora da uccidere.