da “Vai a te stesso” di Moni Ovadia
Lekh lekhà! . . . ‘Vai a te stesso’ vuol dire anche «la Storia è la tua e tu fai la Storia», vuol dire «esci da ciò che ti ruba a quel te stesso», «liberatene». Deponi la pietra di Sisifo, rifiuta la monotonia del già accaduto, imbocca la via del tempo, il tuo tempo. Ad Abrahamo viene chiesto di uscire dalla grande città del Potere e di incamminarsi verso il deserto. Quale significato ha per noi oggi l’ascolto di una voce interiore che sollecitò il titanico patriarca a una scelta così radicale? Oggi come allora, quella voce, ammesso che sia ancora udibile nel frastuono dei significati morti che ci sommergono, ci suggerisce di rimettere in questione la ricostituita rete degli idoli. Una rete che di nuovo vorrebbe imprigionarci in una storia di servitù che abbiamo già vissuto, ancorché in forme pili «rozze».
«Andare nel deserto» comporta allora il mettersi all’ascolto di quella voce, già udita nella nostra più intima interiorità di esseri umani, per fondare in una prospettiva inedita il rapporto fra la nostra interiorità e quella anteriorità.
L’uscita dalla «città» è un’esperienza assai complessa e richiede come primo requisito la fiducia nel tempo. Quello, limitato, della nostra esistenza può vivere questa esperienza, può partecipare delle conoscenze, delle emozioni e dei sentimenti che essa genera, ma non la può compiere. Siamo chiamati solo a fare la nostra parte e a consegnarla a un altro tempo, il tempo che verrà. Possiamo avere la visione d’insieme del progetto, ma esso non è un nostro dominio, è solo un’eredità ricevuta da altri, che ci vivifica nel cammino solo in quanto siamo consapevoli che dobbiamo cederla ad altri, che verranno dopo di noi.
Il secolo che è alle nostre spalle ha sviluppato con inaudita violenza una peste idolatrica che ha preso il nome di totalitarismo. Il virus che l’ha generato è l’idea di un bene assoluto contrapposto a un male assoluto. Per causa sua milioni e milioni di esseri umani hanno perso i loro tratti costitutivi per diventare il Satana da annientare. La radice di questa «confortevole» infezione è ancora ben piantata in molti terreni. Essa è «confortevole» e rassicurante perché evita, a chi la subisce, di rimettere in questione il peggiore dei mali: quello che si genera dalla pretesa di essere innocenti a priori. Gli idoli di cui siamo circondati non sono un problema, il problema è la relazione che stabiliamo con essi. Prima che diventi idolo, una statua è solo una statua: essa può suggerire una relazione estetica con la materia, la sua bellezza può essere occasione di conoscenza. Diventa idolo se noi stessi ci prosterniamo davanti a essa o qualcun altro ci induce a farlo, quindi a riconoscerle un qualche potere.
Il problema dunque non è la statua. Cosi come non lo è l’idea. La migliore delle idee si può ammalare di sclerosi, trasformarsi in ideologia e rendere schiavi. La stessa idea, vitalizzata da una permanente attitudine a rimetterla in questione, si fa invece idealità e contribuisce ai processi di liberazione. Ideologia e idealità muovono dalla stessa radice semantica, ma sono di segno antagonista. L’una pretende certezza e ubbidienza, l’altra attiva la ricerca e si alimenta attraverso il confronto. La stessa relazione si stabilisce fra il concetto di autorità e quello di autorevolezza. Avere un rapporto consapevole con la propria interiorità significa essere in grado di accogliere quella parola – quella istituzione, del linguaggio e del pensiero – che sappia farsi accogliere con autorevolezza: la quale sola è capace di spezzare i ceppi della autorità.
Di nuovo. Che cosa vuol dire dunque andare nel deserto, per noi che non abbiamo pili un deserto, un reale deserto dove andare? Possiamo tentare di raggiungere il «deserto», inteso come fonte di consapevolezza, attraverso la qualità e l’attenzione al le relazioni che formano la nostra vita. Per mezzo del rapporto con l’altro, sia esso individuo o collettività.
Non c’è tuttavia alcuna possibilità di andare a se stessi, se non siamo in grado di riconoscere una autentica autorevolezza a qualcuno che ci precede nel cammino. Ciò che impedisce il cammino della conoscenza di sé è oggi l’incapacità di accogliere in sé la figura del maestro. Che non è superiore per statuto né è detentore della verità assoluta, è solo qualcuno che ha attraversato l’Acheronte prima di noi, ha conquistato il deserto prima di noi, ed è disponibile a rivivere con noi il rischio di quel cammino e di quella scoperta. Ed è così che, generazione dopo generazione, siamo in grado di rinnovare le fonti che sgorgano dalla lontanissima, intima interiorità umana, dove si genera la voce dell’essere e la nostra risposta a quella voce: eccomi!
La liberazione dall’Egitto è il primo gesto di liberazione dell’uomo non solo come atto, ma come concezione del processo stesso di redenzione. Quel processo è libertà dall’idolatria prima di tutto, quindi libertà tout court. La liberazione dall’Egitto non è cosa che riguardi solo gli ebrei, riguarda l’umanità tutta. Anche perché dall’Egitto uscirono non solo ebrei, né tutti gli ebrei uscirono dall’Egitto. Pare che solo un quinto del popolo ebraico lo abbia fatto. E con quegli ebrei uscirono tutti gli aspiranti alla libertà a vario titolo, tutti coloro che pativano o non tolleravano il sistema idolatrico. Tutti coloro che volevano fondare, per sé e per le generazioni future, un rapporto di consapevolezza e una nuova visione della vita e del mondo che non fosse prestabilita, ma cercata, in una prospettiva etica e di Legge.
Quando noi ebrei tutti gli anni celebriamo il Pesach – lo celebrava anche l’ebreo Gesù quando secondo la tradizione evangelica fu arrestato – raccontiamo una storia, la storia di una liberazione, dei suoi prodigi, delle sue alterne vicende. Viviamo per otto giorni in una condizione particolare, per ricordare quell’evento, per riviverlo. E ci viene raccomandato dai maestri della nostra Tradizione: quando racconti questa storia, quando la celebri, quando la tramandi, ricordati che la liberazione di cui si parla è la tua.
Ci viene ricordato, ed è bene ricordarlo a tutti, ebrei e non: la libertà non è qualcosa che possa essere octroyée, concessa dall’alto. La liberazione è un processo che ti devi conquistare. E ogni generazione deve compiere tale conquista, altrimenti il processo si vanifica.
Una delle poche cose per le quali valga la pena vivere è la costruzione di se stessi come un vero essere umano. Nascere uomini è qualcosa che a tutti noi tocca come condizione gratuita. Usciamo da un ventre materno senza aver fatto nulla. Il nostro concepimento non è un atto di volontà. Ma il concepimento e il parto ci consegnano alla vita come evento biologico, biomeccanico. Fare di noi qualcos’altro, diventare quell’essere umano che è stato fondato dal processo di liberazione, è il capolavoro a cui l’uomo dovrebbe dedicare tutta la propria vita. Produrre, consumare, generare scorie fanno parte di una sorta di sopravvivenza bioeconomica. La vita è dare a questa sopravvivenza bioeconomica un senso. E questo non può arrivarci per generosa concessione altrui. Costruire questo senso è entrare in guerra, una guerra che non si conduce con le armi ma con il pensiero, con le emozioni, con i sentimenti, con il processo di conoscenza.
In questa prospettiva diventa urgente percorrere lo stesso cammino di Abrahamo, per scoprire una possibilità diversa rispetto all’ineluttabilità di ciò che è offerto in natura, la legge del più forte: o, se vogliamo trasporla oggi – in una natura alterata, corrotta e pervertita – la legge del più furbo, la legge del più privilegiato.
La libertà non è data in natura. La libertà e l’idea di libertà nascono da un atto etico. Nessuna legge naturale poteva suggerire la libertà dell’uomo. Solo un’altra Legge poteva farlo e la Torah ci offre questo inestimabile dono, postula la libertà per l’uomo: l’uomo è libero di scegliere tra il Bene e il Male. Dio può ammonire Adamo ed Eva, ma non può impedire loro di scegliere. Il peccato originale, la scelta che Adamo ed Eva compiono nel Paradiso, fonte apparente di tutti i mali, sarebbe stato il sesso: questa mediocre panzana ci è stata gabellata da chierici sessuofobi. Il mio maestro, in una delle sue lezioni indimenticabili, ha proposto una lettura davvero folgorante della colpa originaria: il peccato imperdonabile fu pensare di potere acquisire la conoscenza mangiando un frutto. Quella criminosa stupidaggine spezzò la condizione edenica. La conoscenza non può essere inghiottita, non può essere comprata, la conoscenza deve essere conquistata attraverso il travaglio dell’interiorità che conduce all’ecce homo.
La conoscenza è un mettersi all’ascolto, è un’operazione di sintonia che permette di udire quella voce, che ti chiama verso la libertà e verso la conquista della dignità di essere umano. L’etere spirituale è intasato da miriadi di messaggi che tendono a sottrarre l’uomo a se stesso. Tendono a renderlo disponibile come risorsa da utilizzare spogliandolo di ciò che è fondante per consegnarlo a un marasma di coazioni meccaniche. Risorsa del mercato, risorsa della demagogia, risorsa degli interessi altrui. Andare a se stessi è il presupposto per costruire la propria libertà e la propria identità. Ma come è detto sapientemente nel nostro Sud, nessuno nasce imparato. Mettersi all’ascolto di se stessi significa allora stabilire un ponte, una sintonia tra la propria interiorità e la anteriorità che ha generato il cammino dell’essere umano. Un antico proverbio indiano recita: se non sai dove stai andando, volgiti per vedere da dove vieni. Solo un cammino di riconoscimento e costruzione della propria identità permette un autentico processo di liberazione.
Costruire un senso implica mettersi in viaggio sulla via originaria, la via che ha aperto la possibilità stessa di quel senso, implica ritrovare le fonti a cui abbeverare la propria consapevolezza. Non si tratta di un meccanismo di ripetizione acritica, ma di prendere cognizione del nostro procedere, non solo per mezzo della mente, ma anche, vale ripeterlo, delle emozioni, dei sentimenti e degli affetti, altrettanto responsabili di un compiuto processo di conoscenza. Non è possibile affidarsi alla deriva di significati esterni, garantiti a priori, irrigiditi, sclerotizzati, portato di uno sfibramento morale che riduce i grandi principi a una scorza vuota. Quei principi sono fertili solo se ogni volta ciascun individuo, grazie all’ascolto di se stesso, li fa propri, si rifiuta di delegarli, li rende necessari al proprio esistere, rischia con loro, li rende vivi e pulsanti attraverso la propria circolazione sanguigna, rimettendo in gioco le scelte quotidiane, piccole e grandi.
I principi più alti e le istituzioni che li garantiscono (libertà, democrazia, giustizia) devono diventare imprescindibili e urgenti per i destinatari di quelle istituzioni, altrimenti abbandonati al proprio meccanismo essi diventano immediatamente disponibili per un uso strumentale di potere particolare e privato.
Per tornare a se stessi è necessario coniugare due condizioni in modo inscindibile, compenetrarle: quella di libertà e quella di responsabilità. Nessun uomo può dichiararsi libero se non è responsabile dei propri gesti, dei propri pensieri, delle proprie parole. E nessun essere umano può essere responsabile se non è libero, nella pienezza della propria capacità, di scegliere e di orientarsi. Laddove l’individuo non orienta la propria vita e le proprie scelte con una consapevolezza interiore, non sceglie più per la libertà ma subisce l’arbitrio altrui.
Libertà non è fare ciò che si può, né fare ciò che può essere fatto – o detto, o pensato – impunemente, libertà è fare ciò che è giusto. Fare ciò che è giusto diventando il giudice di se stessi. Il giudice, non l’avvocato difensore. Il pericolo più insidioso dei nostri tempi è proprio la perdita dello spazio interiore per giudicarsi, la perdita della capacità di ascolto interiore. Una enorme quantità di detriti interposti tra noi e noi stessi, una impressionante quantità di mediazioni e di pericoli fino a oggi imprevedibili, minano la nostra interiorità e la rendono disponibile all’esproprio. Sfruttatori di ogni sorta, non paghi di essersi appropriati delle nostre capacità di produzione e di consumo, vorrebbero anche prendersi la nostra capacità di produrre emozioni, sentimenti, sogni. Soprattutto, vorrebbero prendersi il tempo della nostra interiorità.
Il tempo dell’essere umano è scandito dalla relazione tra tempo interiore e tempo della libertà. Quattromila anni or sono ha avuto inizio una titanica battaglia perché il cammino dell’uomo si collocasse in questa prospettiva, contro l’ipertrofia e l’iterazione angosciosa della produzione e del consumo, contro lo spazio del potere e della servitù. Entrare in questa relazione luminosa tra tempo interiore e tempo della libertà è il movimento dell’andare a se stessi. Per riconoscere in se stessi l’intero genere umano. Noi ascendiamo tutti un’unica matrice, siamo dunque uguali, abbiamo pari dignità, eppure siamo diversi, ciascuno di noi è unico. Questo perché – dicono i maestri del Talmud – l’universo è stato creato in modo specifico per ognuno di noi, quindi il singolo essere umano porta la responsabilità dell’intero universo.