di Franco Garelli in in “La voce e il tempo” del 26 dicembre 2021
La consultazione avviata quest’autunno nella diocesi di Torino, come in tutte le diocesi d’Italia, per preparare il Sinodo dei vescovi della Chiesa universale del 2023, non esaurirà i suoi effetti in quel Sinodo.
Essa costituisce il primo passo di un «cammino sinodale» che la Chiesa italiana intende proseguire in proprio fino al 2025.
In questi mesi le Chiese diocesane sono al lavoro sui temi della «sinodalità». Ma il secondo passo sarà allargare la riflessione a tutte le grandi sfide dell’annuncio cristiano. Il primo ispiratore dell’iniziativa italiana è stato senza dubbio Papa Francesco, ma forse la spinta decisiva è venuta dalla pandemia, troppo prolungata, un evento che ha scompaginato (anche) la vita ecclesiale e ha amplificato i nodi irrisolti che la Chiesa italiana si porta appresso da tempo. Il cammino sinodale della Chiesa italiana è stato varato dai vescovi dopo molti dubbi e tentennamenti: per l’emergenza in atto, per la stanchezza di un cattolicesimo che sta vivendo la sua fase autunnale, per il timore di non avere le risorse umane, culturali e spirituali per far fronte a una sfida così impegnativa. Tuttavia, alla fine la Cei ha innescato questo cammino, considerandolo come un’occasione propizia per rinnovare la comunità ecclesiale, per chiedersi che cosa ci sia di cristiano che valga davvero la pena di dire oggi. Di qui la «Carta di intenti» che ha per titolo «Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita».
Cammino sinodale
Il cammino sinodale è una novità assoluta per la Chiesa italiana, che nella sua storia recente si è comunque misurata con altre forme di «convenire ecclesiale», rappresentate dai Convegni ecclesiali decennali (perlopiù collegati ad un ‘piano pastorale’) e dalla possibilità di attuare dei Sinodi nelle singole Diocesi.
Detto questo, occorre notare che la nuova esperienza presenta (almeno nelle intenzioni) varie discontinuità rispetto ai «cammini ecclesiali» del passato.
Anzitutto il passaggio «da un modo di procedere deduttivo e applicativo» (guidato e concluso dalla Cei e dai vescovi) ad un metodo di ricerca e di sperimentazione che costruisce «l’agire pastorale dal basso e in ascolto dei territori». Inoltre, è previsto un «percorso di confronto circolare», in quanto la riflessione dal basso deve poi confluire in un momento unitario, per poi tornare ad arricchire le comunità locali. Ancora, si attribuisce grande importanza alla partecipazione attiva di tutti i soggetti ecclesiali. La cifra di fondo, dunque, è che il percorso non può essere precostituito. E ciò sia perché la pandemia ci insegna che le certezze consolidate hanno gambe fragili, sia perché si tratta di un ‘processo’ che si costruisce, basato sull’ascolto, sulla ricerca, sulle proposte.
Si delinea quindi un «cammino ecclesiale» assai più aperto rispetto ad analoghe esperienze del passato, reso possibile da un coinvolgimento diffuso. Un coinvolgimento non impossibile, ma comunque difficile, in quanto occorre ricreare quella fiducia e quella passione per le sfide impegnative che da tempo sono risorse rare negli ambienti ecclesiali. Inoltre, come si produrrà la sintesi di questo iter di riflessione e di comunione, in un’epoca in cui la frammentazione abita anche la Chiesa italiana?
I temi del cammino
Tra i temi proposti per la riflessione di qui al 2025, alcuni sono i classici campi di impegno della Chiesa in Italia (l’emergenza educativa, la formazione delle coscienze in un’epoca carente di riferimenti etici, la necessità di descolarizzare la catechesi, la carenza di vocazioni all’impegno politico ecc.), mentre altri derivano dal travaglio vissuto dagli ambienti ecclesiali proprio nei mesi più bui della pandemia. Tra questi, «la semina della parola attraverso nuovi canali di ascolto e gli strumenti tecnologici» da integrare con le modalità in presenza; il coinvolgimento delle famiglie nella proposta di fede; la valorizzazione (oltre alla centralità dell’Eucarestia) di altre forme di preghiera individuale e comunitaria, come la lectio divina, la meditazione personale, le forme rituali nello spazio familiare; e inoltre la preoccupazione per il forte calo della presenza dei ragazzi negli ambienti ecclesiali.
Ma c’è un tema `sinodale’, tra quelli ricavati dal dramma della pandemia, che appare decisamente dirompente. Là dove nella Carta di intenti sinodale si parla dell’urgenza del «recupero dell’aspetto escatologico della fede cristiana nell’aldilà della speranza oltre la morte». Sembra quasi la ammissione da parte dei vescovi che la Chiesa italiana (certo non il Pontefice) non sia stata all’altezza del suo alto compito in un periodo decisivo della nostra epoca. L’italiano medio (è stato detto) ha vissuto male l’afonia pubblica e spirituale della Chiesa alta nell’emergenza sanitaria. Una Chiesa italiana che è parsa più preoccupata delle chiese chiuse dal potere politico, che capace di riflettere pubblicamente sui drammi che si stavano vivendo, sulle morti in solitudine e senza funerali, sulle bare accatastate, sul senso di eventi che hanno stravolto la vita umana, civile e quella ecclesiale. Per cui la comunicazione pubblica della fede è stata debole o pavida in questo dramma sociale e sanitario. Di qui il rischio che anche la Chiesa nel suo insieme contribuisca a rendere evanescente la dimensione escatologica del cristianesimo. Ecco un tema sinodale di grande rilievo.
Questioni pastorali
I temi pastorali sono ben presenti nell’agenda sinodale, che tuttavia non sembra contemplare al suo interno una riflessione sulle questioni strutturali e organizzative che da tempo appesantiscono la vita della Chiesa e del cattolicesimo nel nostro Paese. Non manca qualche accenno in questa direzione, ma le formule usate sono troppo generiche per pensare che — per i Vescovi — il «cammino sinodale» debba occuparsi anche di questi argomenti. Questo capitolo potrebbe intitolarsi come la riflessione sulla ‘forma Chiesa’, e alimentarsi dei molti spunti al riguardo che circolano da tempo negli ambienti ecclesiali di base e tra gli addetti ai lavori.
Tra questi:
Ha ancor senso, in Italia, una presenza così disseminata di Diocesi sul territorio nazionale (sono oltre 220 e il 50% di esse conta una popolazione inferiore ai 150 mila abitanti), quando un accorpamento di queste strutture renderebbe la Chiesa italiana più snella e libererebbe risorse umane e spirituali per l’impegno pastorale? La formula della parrocchia non sembra in discussione; tuttavia essa deve essere ripensata in un’epoca carente di clero e di grande mobilità (anche religiosa della popolazione); in vari territori, le Unità pastorali saranno le parrocchie del futuro?
Ha ancora senso pensare all’Italia religiosa evocando l’immagine di un «cattolicesimo di popolo»? Quando tutte le indagini (ma anche il vissuto ecclesiale) attestano che sotto la ‘sacra volta cattolica’ convivono identità religiose molto diverse tra di loro (ad esempio i cattolici impegnati e i cattolici culturali o anagrafici), che richiedono quindi approcci pastorali specifici e dedicati.
Il Sinodo sembra orientato a superare la struttura piramidale della Chiesa, ma in questo quadro, come attrarre e valorizzare un laicato attivo desideroso di condividere le responsabilità, capace di occuparsi anche di varie incombenze gestionali che gravano sulla chiesa locale, alleggerendo in tal modo il clero di compiti impropri.
Ad ogni «convenire ecclesiale», poi, la comunità credente è interpellata dalla questione femminile nella Chiesa, che non si esaurisce con il tema del sacerdozio femminile.
Insomma, (con questi ultimi punti) l’invito è a mettere un po’ d’ordine in un campo dove i preti soffrono (per le troppe incombenze e responsabilità cui devono far fronte), i laici scalpitano o si deprimono (e molti si impegnano altrove), mentre le donne giustamente non si accontentano più di riconoscimenti più elogiativi che sostanziali. Da troppo tempo si parla dell’accesso delle donne al diaconato.
Temi come questi, pur non figurando nell’agenda sinodale, saranno certamente al centro dei lavori, grazie a quell’ascolto dal basso (a quella consultazione capillare del popolo di Dio) che questo «convenire ecclesiale» intende promuovere. Anche perché un’altra parola chiave della Carta di intenti è l’invito alla concretezza, a tradurre i grandi ideali (la comunione, la corresponsabilità, il primato delle persone sulle strutture) in scelte realistiche e incisive nella vita della comunità cristiana.
Due considerazioni
Quanto detto (la capacità di tradurre in un modello organizzativo adeguato i grandi valori o obiettivi) mi induce a due considerazioni finali.
Una riflessione anzitutto sul rilievo che viene dato in questo percorso all’ascolto dal basso, alla consultazione diffusa del popolo di Dio. E’ una prospettiva importante, in quanto lo stile dell’ascolto reciproco è visto come propedeutico al «costruire e al camminare insieme». Tuttavia sappiamo che proprio negli ambienti ecclesiali, proprio tra la porzione di popolo di Dio più impegnata, le differenze di sensibilità sono assai spiccate circa il modo di intendere la fede, il rapporto Chiesa-mondo, l’autorità della Chiesa, l’essere credenti nella società plurale. In sintesi, 1’unità sui valori è un obiettivo accattivante, ma occorre anche essere attrezzati a gestire le tensioni che da sempre hanno attraversato il cattolicesimo di base quando si confronta su come si testimonia la fede nella città terrena.
Spunti interessanti potranno poi venire dall’ascolto di un popolo di Dio più allargato, dei quasi credenti, o dei cattolici oltre il recinto, o degli uomini di buona volontà, di quanti credono diversamente. Anche da questi versanti emergeranno delle intuizioni assai feconde; ma qui bisogna avere uno spirito forte, perché non sono poche le persone che non sanno che farsene della Chiesa, o per le quali la Chiesa non ha alcuna risonanza emotiva, che la vorrebbero drasticamente diversa, magari avendo alle spalle un contenzioso di ferite che viene da lontano. L’altra riflessione riguarda il tema già ricordato (ricorrente da decenni) dell’emergenza educativa.
Mi fa tenerezza una Chiesa che si sente continuamente interpellata da questa sfida, quando al suo interno di anno in anno si riducono le risorse umane che si applicano in questo campo, si chiudono gli oratori, ci si affida ad una pastorale degli eventi perché mancano i preti, le suore o gli animatori laici che si battono ordinariamente per questa causa. In varie diocesi, ormai (mi confidava un figura ecclesiale autorevole), il personale religioso che si impegna nella pastorale della salute o della malattia è 5-10 volte più numeroso di quanti agiscono nella pastorale giovanile. Ovviamente, si tratta di un trend che ha le sue ragioni nell’età sempre più anziana sia della popolazione sia del clero e delle figure religiose. Ma una Chiesa che non fa di tutto per riequilibrare la sua presenza/servizio nella società (in questo caso investendo nel rapporto con i giovani, per seguire le nuove famiglie) è una Chiesa destinata a situarsi ai margini della storia.