Intervista a Arturo Sosa Abascal, il trentesimo successore di Loyola
La Lettura, domenica 27 novembre 2016
Padre Arturo Sosa Abascal, il primo messaggio che lei ha ricevuto dal Papa gesuita, dopo l’elezione a Generale della Compagnia di Gesù, è stato: «Sii coraggioso». Che cosa voleva dire?
«L’ho capito nel solco della chiamata all’uscita che rivolge a tutta la Chiesa: riformatevi e uscite. Abbiate il coraggio di incontrare l’umanità di oggi con i suoi problemi. La reale umanità e l’intera umanità, senza selezionare quella che vorremmo e senza fermarci a quella che già conosciamo. Il coraggio di pensare liberamente e anche di pensare qualcosa che ancora non è stato pensato. Il coraggio di non avere paura di scomodare il mondo e la Chiesa, ma innanzitutto noi stessi. Sono scelte esigenti. Per compierle fino in fondo la Compagnia non deve fermarsi a difendere se stessa e non deve conformarsi a quello che c’è e neppure a quello che la Chiesa è».
Poco dopo quell’incitamento venuto da Francesco, nella prima omelia da Generale lei ha parlato di audacia dell’improbabile e addirittura dell’impossibile. Non sarà che la presenza di un Papa gesuita vi sta contagiando?
«No, non ci siamo montati la testa. Non è da oggi che la spiritualità della Compagnia di Gesù cerca un oltre, non si acquieta all’esistente. È la regola del magis, cioè del più, come noi diciamo. Quello spunto mi è venuto dal Maestro dei domenicani Bruno Cadorè che nell’omelia che ci ha tenuto a prologo della Congregazione generale ci ha invitati ad avere l’audacia dell’improbabile, proponendola come l’atteggiamento proprio delle persone di fede che cercano di testimoniare Cristo davanti all’umanità di oggi e per fare questo hanno bisogno di lasciare indietro la paura e di remare verso il largo. Quel richiamo mi è piaciuto ma mi è parso che si potesse dire di più e così sono arrivato alla proposta di non fermarsi all’improbabile e di mirare all’impossibile».
In questa mira all’impossibile non c’è qualcosa di eccessivo? Un ramo di follia?
«C’è. Ma è la follia della fede. Perché miriamo all’improbabile e all’impossibile – com’è l’impresa di proporre il Vangelo all’umanità di oggi – non basandoci su una nostra audacia ma su quella che sgorga dalla chiamata del Signore. Se la nostra fede è come quella di Maria, la mamma di Gesù e la madre della Compagnia di Gesù, la nostra audacia può andare all’impossibile, perché nulla è impossibile a Dio come proclama l’arcangelo Gabriele nella scena dell’Annunciazione».
A quale impossibile lei allude? Nel caso di Maria si trattava di concepire un figlio senza l’apporto di un uomo, ma quell’impossibile le era proposto da un angelo: i gesuiti dove dovrebbero cercarlo?
«L’impossibile di cui parlo è l’uscire dagli schemi che ci vengono imposti dalla realtà che ci circonda. Facilmente l’umanità si convince che non sia possibile altro mondo che questo, altra convivenza che quella in cui ci muoviamo. E dunque si tratta di andare oltre l’esistente. Siamo chiamati a questo già in quanto creature, perché siamo fatti a immagine del Creatore e dunque dobbiamo essere creativi. Penso a tutte le volte che Gesù nei Vangeli rimprovera i discepoli per la poca fede e dice: se ne aveste anche solo un granello potreste fare questo e questo».
Che aiuto può venire all’umanità di oggi dalla pedagogia della Compagnia di Gesù (tutta indirizzata alla formazione del singolo mentre il mondo è tutto voltato all’economico e al sociale)?
«La pedagogia degli Esercizi Spirituali, come s’intitola l’opera più importante del nostro fondatore, è un messaggio importante per la cultura di oggi, che è – si dice sempre – una cultura dell’immagine e Sant’Ignazio ritiene importantissima l’immagine. Sempre invita colui che compie gli esercizi a contemplare Gesù secondo le diverse scene proposte dai Vangeli; non si tratta di una contemplazione passiva ma di una veduta del luogo e dei personaggi mirata a cogliere la dinamica dell’azione evangelica nella quale collocare se stessi per prendere parte ad essa. Mirata cioè a un discernimento e a una decisione che non restano nell’intimo ma sono rivolti all’azione».
D’accordo ma non ritiene che gli «Esercizi Spirituali» insegnati da Ignazio di Loyola risultino oggi eccessivamente introspettivi?
«Secondo la mia esperienza gli Esercizi Spirituali portano fuori. Entrano dentro per portare fuori. Tendono a motivare la persona a uscire verso gli altri e verso Dio. Si tratta – dice Ignazio al paragrafo 189 degli Esercizi – di “uscire del proprio amore, sapere e interesse”. In questa dinamica c’è profondità teologica, perché il peccato non è solo trasgressione di un comandamento, ma più al fondo è chiusura in se stessi, trionfo dell’egoismo. Gli Esercizi mirano a superare questa chiusura, sono guidati da una logica espansiva, che è quella della lavanda dei piedi, dove Gesù dice: quello che ho fatto a voi, fatelo gli uni agli altri».
Lei in passato, nella sua patria venezuelana, si è variamente sporcato le mani con una situazione politica sempre ribollente…
«Spesso me le sono sporcate ma poi le ho anche ripulite…».
È vero: ha ammesso d’aver sbagliato e corretto via via analisi e giudizi, ma a motivo di questi precedenti la sua elezione è stata anche criticata per le sue passate posizioni politiche. Che risponde alle critiche?
«Qualsiasi cosa si dica o faccia in Venezuela e sul Venezuela viene criticata. Il nostro dramma è che non siamo capaci di ascoltare. Appena uno parla si cerca di incasellarlo, prima di ascoltare che cosa abbia da dire. Questa situazione di dialogo tra sordi dura da oltre 25 anni, risale a prima del chavismo. Tante volte mi sono trovato in incontri nei quali qualcuno, dopo un mio intervento, quale ne fosse il contenuto, veniva a gridarmi in faccia: ma lei è pro o contro? “Veda lei”, mi veniva di rispondere. Io voglio, per il popolo del Venezuela, un mondo molto migliore di quello che c’è adesso, sono sicuro che sia possibile realizzarlo ed è per questo che mi sono adoperato finché ero là. Sono inoltre convinto che a un cambiamento vero si possa arrivare solo per via politica, escludendo il ricorso alla violenza e che il primo passo debba essere quello di capirsi tra diversi, di riconoscersi gli uni gli altri».
Spesso le critiche che ricevono i gesuiti latino-americani sono le stesse che riceve il Papa gesuita latinoamericano. Che direbbe a chi sostiene che fate troppa politica e una politica che appare quasi sempre di sinistra, se oggi questa categoria ha ancora senso?
«Secondo me facciamo poca politica: dobbiamo farne di più. Intendo la politica alta, non quella delle fazioni. Per intendere questo mio favore alla politica con l’iniziale maiuscola tenga anche conto del fatto che il mio campo di studi è quello delle scienze politiche. Sono convinto che senza politica non è possibile una vera vita umana e neanche la lotta per la giustizia. Il motto del generale von Clausewitz che la guerra sia la “continuazione della politica con altri mezzi” è profondamente errato: la guerra nega la politica, che è il luogo della costruzione della convivenza. Ne dichiara la sconfitta. Il cristiano non può estraniarsi dalla politica che ha a che fare con la dimensione sociale del Vangelo. Il mio impegno – quand’ero in Venezuela e anche ora – è quello di pormi a questo livello dell’impegno politico. La differenza tra destra e sinistra mi appare ogni giorno più inutile, una faccenda di etichetta. La sostanza è che la nostra fede cristiana ci porta alla lotta per la giustizia. Il credente non può rassegnarsi a un mondo che è pieno di ingiustizie».
A che cosa pensa quando pronuncia queste parole sulle ingiustizie…
«Penso al potere economico che domina il pianeta, al narcotraffico, al commercio delle armi, alla tratta delle persone. Penso al crescente e antievangelico divario tra ricchi e poveri: negli ultimi dieci anni questo divario è cresciuto. Nella liturgia invochiamo l’avvento di un “regno di giustizia, di amore e di pace” e dunque il cristiano non potrà approvare questo andamento».
Che dice alle persone di destra che si scandalizzano della vostra presunta tendenza a sinistra?
«Non voglio polemizzare con chi è a destra. Il mio ragionamento va verso chi si oppone a ogni cambiamento e nemici del nuovo possono essere anche a sinistra. Penso che questi oppositori siano persone ideologicamente rigide e intimamente insicure, che hanno bisogno di tenere ferme le cose per trovare sicurezza nel già noto. Hanno bisogno di un terreno sicuro sul quale poggiare i piedi mentre il Vangelo ci toglie il pavimento e ci lascia a mezz’aria: “Sono venuto a portare il fuoco”, “Faccio nuove tutte le cose”».
Queste sue parole verso i nemici del cambiamento somigliano a quelle che Francesco spesso rivolge ai cattolici che si oppongono alle riforme. Lei che cosa dice delle contestazioni al Papa che vengono dall’interno della Chiesa?
«Le critiche che vengono fatte al Papa, oggi con più libertà rispetto a ieri, io le vedo come un frutto del clima che egli stesso ha creato invitando a un dibattito aperto e a dire con schiettezza il proprio convincimento. Più volte ha invitato alla parresia che appunto vuol dire parola schietta. Francesco è capace di ascoltare opinioni diverse dalla sua. Questo ascolto è utile a tutti i livelli della Chiesa. Il nostro tempo chiede decisioni nuove e per andare al nuovo è necessario un vasto confronto».
Che cosa pensa della lettera dei quattro cardinali, tra i quali l’italiano Carlo Caffara, che hanno chiesto al Papa di chiarire cinque «dubbi» a riguardo dell’esortazione «Amoris laetitia»? Francesco ancora non ha risposto e loro hanno pubblicato la lettera: lei è preoccupato di questi sviluppi?
«Non sono preoccupato. Quei quattro si sono presa la libertà di parola alla quale il Papa aveva invitato. Mi piace che questo avvenga. Nel linguaggio nostro di gesuiti si dice che è necessario conoscere l’opinione di tutti per fare un vero discernimento comunitario. Naturalmente il gioco dev’essere leale: se uno chiede un chiarimento perché non ha capito, siamo nella lealtà. Diverso sarebbe il caso di chi critica strumentalmente per un calcolo di convenienza, o pone domande per mettere in difficoltà».
In uno dei suoi primi appuntamenti pubblici dopo l’elezione, lei ha detto che in Cina oggi sono presenti dodici gesuiti e che il governo sa della loro presenza. Che ha da dire a questi pionieri?
«Grazie per essere lì, grazie per avere risposto alla chiamata a una missione difficile. Fanno un lavoro non religioso: insegnano lingue, matematica, fisica, discipline economiche e amministrative. Attestano una possibilità di convivenza, di vicinanza umana».
Matteo Ricci, grande gesuita, cercò di farsi «cinese con i cinesi». Oggi noi europei dovremmo farci africani e arabi con gli africani e gli arabi che vengono qui?
«Il criterio dell’inculturazione, cioè di entrare pienamente nella cultura del popolo al quale si viene mandati, è sempre stato al centro della strategia missionaria dei gesuiti. Oggi poi siamo di fatto una Compagnia multiculturale. La maggioranza di noi non è più europea. La sfida di oggi è la interculturalità: nella Compagnia, nella Chiesa, nel mondo. Nella mescolanza degli uomini c’è qualcosa della faccia di Dio».
Ma che Europa avremo domani, che Stati Uniti d’America, con la crescita degli immigrati e il calo dei nativi?
«Tutti i popoli sono nati dalla mescolanza, l’Europa e gli Stati Uniti
più degli altri. E dalla mescolanza hanno avuto le loro grandi risorse. L’arrivo di genti nuove è un trauma ma è anche una speranza. Io penso che l’Europa e gli Stati Uniti di domani saranno migliori con questa rinnovata varietà. Il travaglio ci fa più umani, ci sposta dai nostri convincimenti per aiutarci ad accettare i nuovi venuti. Da giovane leggevo Teilhard de Chardin e da questo gesuita geniale ho imparato a coltivare l’ottimismo dei tempi lunghi».
Come mai la Compagnia di Gesù non si attiene più alla regola che proibiva ai gesuiti di accettare cariche ecclesiastiche come l’episcopato, il cardinalato e il papato? Non credete più che il vostro fondatore avesse buone ragioni per proibire ai compagni ogni accesso al potere?
«Crediamo che le avesse e ci atteniamo ancora a quella regola, ma nella novità dei tempi. Spiego la novità con l’esempio dei parroci. Il fondatore non voleva che i gesuiti fossero parroci e non lo fummo per molto tempo. Perché le parrocchie allora avevano benefici, cioè proprietà, configuravano una situazione sicura, un prestigio sociale, mentre il criterio missionario dettato da Sant’Ignazio ci indirizzava alla scelta dei luoghi dimenticati, delle frontiere, delle mansioni che altri fuggivano. Oggi fare il parroco non è più fonte di prestigio, e oggi abbiamo centinaia di parrocchie in tutto il mondo. Qualcosa di simile vale per l’episcopato. Ero recentemente al giuramento del confratello Paolo Bizzetti, che è stato mandato in Turchia come Vicario Apostolico dell’Anatolia a prendere il posto del martire Luigi Padovese e ha giurato sulla Bibbia di Padovese che porta il segno del proiettile che l’ha ucciso. A fare il vescovo lì, come in tanti luoghi di missione, non vuole andare nessuno».
Ma qualche volta vediamo che un gesuita diventa arcivescovo di Milano o di Buenos Aires…
«Succedeva anche in passato, abbiamo avuto cardinali gesuiti fin dal XVI secolo. Per un nome noto, pensi al cardinale e santo Roberto Bellarmino. Vuol dire che il Papa li ha obbligati ad accettare quella nomina. Lei sa che abbiamo un voto di speciale obbedienza al Papa».
Che cosa chiede Dio ai gesuiti in quest’epoca di grandi trasformazioni e cosa chiedono i gesuiti a Dio?
«Chiediamo la consolazione, che è parola ignaziana tutta da intendere: non è la gioia del cuore, ma la conferma interiore della missione ricevuta. La sicurezza che questo a cui vengo chiamato è ciò che il Signore vuole da me. L’atteggiamento di Gesù nell’Orto: passi da me questo calice ma sia fatta la tua volontà».
E Dio che vi chiede?
«Credo che ci chieda, come sempre e a tutti, di andare e di annunciare il Vangelo. Specificamente a noi chiede di metterci nei posti di frontiera che dicevamo, in quelli nuovi o pericolosi, dove si rischia la vita. E di restare lì. In Turchia, come si accennava. In Cina. Nei centri di accoglienza per i rifugiati. Nelle zone delle lotte tribali. Nelle terre dove sono i più poveri tra i poveri».
Luigi Accattoli