Fra le tante grazie ho avuto quella di essere uno degli orientatori della gioventù nel passaggio dalla dittatura alla democrazia. Ci proponemmo una formazione solida nella fede e conseguentemente una formazione politica, avendo come meta una convivenza della fede con la ricerca della giustizia e della pace. Ci consumammo la vista leggendo Maritain, Mounier e i personalisti francesi che indicavano ai giovani i modelli fondatori della laicità dello Stato. Così cercavamo di indicare una partecipazione alla responsabilità politica condividendola con persone che ne rappresentavano l’ideale, come La Pira, Dossetti, Gonella e altri, discepoli tutti di un grande maestro, Giovanni Battista Montini poi Paolo VI. Tutti fedeli alla chiesa ma mai clericali. Ho cercato di non uscire mai da questa strada, fedele a questi modelli di vita. Ora in tempo di idolatria, tutto è confuso. E’ difficile pensare una etica vedendo quelli che dovrebbero essere i modelli scendere a patteggiamenti e alleanze scandalose. L’idolo unifica tutti, a condizione che nessuno rivolga la domanda: “unde poecunia?”, da dove il denaro? Ho pensato di accogliere gli inviti che mi offrono l’occasione di incontrarmi con gruppi di giovani a cui posso affidare un messaggio politico orientato dall’ideale della giustizia e della pace. Porto con me sempre il bruciante desiderio di comunicare il fascino di Gesù annunziatore della vera libertà. So che mettendo questa mia intenzione sotto gli occhi dei miei concittadini non potrò evitare una interpretazione diversa della mia intenzione. Il Maestro lo ha previsto e mi ha insegnato come affrontare il rischio perché non mi fermi e non lasci la sua mano, per continuare accanto a Lui il cammino lieve e giocondo fino alla fine. La mia vita è indissolubilmente legata a Lucca, non solo perché è la mia città natale ma soprattutto per gli eventi che posso considerare paradigmatici per la mia lunga esistenza. Ho raccontato molte volte dello scontro armato fra i fascisti e i loro avversari politici avvenuto una sera verso la fine dell’anno 1920 quando avevo otto anni di età. Sono tornato spesso alla scena del bambino atterrito con gli occhi sgranati fissi sui feriti che facevano della piazza un lago rosso di sangue. In confronto alle stragi fissate negli occhi dei bambini russi o iracheni o palestinesi, il breve episodio di piazza san Michele appare insignificante, ma sufficiente per riempire gli occhi e la fantasia di un bambino alla soglia dell’adolescenza. Il filo rosso della mia vita comincia a svolgersi da quell’evento che affida una notizia troppo pesante per un bambino: gli uomini non si vogliono bene! E questa notizia si apre e matura nello svolgersi del tempo: tu ci puoi fare qualcosa? il mondo sarà sempre questo? come mi è venuto incontro il Cristo liberatore? Una domenica dopo Pasqua mia madre mi annunziava che era la domenica della libertà e “stamani andremo a messa in san Martino”. Sicuro, c’è una bella statua del Gianbologna che porta alla base la scritta “Christo liberatori – A Cristo liberatore”. Tutte le grida alla libertà che riempirono Lucca persino dalla base di un bel monumento a Maria che si erge trionfante su una colonna a un crocicchio di strade, non scossero molto la mia bella città sonnolenta, comoda, adagiata. Ma in quel momento, con un piccolo gruppo, il filo rosso comincia a distinguersi nell’intreccio complesso: la religione continuerà? L’amore, la sessualità, lo studio, il futuro? Nelle nostre agitate confuse discussioni appariva una domanda: “quale il nostro posto nel mondo?”. Ci univa una scelta di opposizione al regime fascista e una grande passione per alcuni autori che mantenessero acceso il nostro crogiuolo di idee, non precisamente orientate alla ricerca di una fede religiosa. Come da questo crogiuolo venne fuori un prete? Quante volte mi è stata rivolta la domanda: come fu possibile a 25 anni chiedere di essere ammesso in un seminario? E ogni volta ho sentito l’imbarazzo di una risposta. A differenza dei miei amici io portavo con me l’amore ferito per l’umanità, la com-passione. Basta a spiegare la mia scelta? Per me sì. Del resto credo che nessun uomo riuscirà mai a illuminare tutte le pieghe della propria vita. Questo amore ferito mai risanato è oggetto della mia spiritualità, delle scelte che mi sono venute incontro nel lungo cammino del tempo. La figlia di Carlo Del Bianco, leader delle nostre agorà, ha trovato un mio biglietto naturalmente dimenticato. Nell’anno 1942, in piena guerra, fui inviato a partecipare ad una grande missione a Pesaro. Mi assegnarono la fabbrica di moto Benelli. Naturalmente il padrone fascista concedeva uno spazio di tempo al missionario che veniva a parlare dei doveri religiosi. Improvvisamente mi sentii invaso da un imbarazzo terribile. Se mi avessero messo nudo alla vista di quel gruppo di operai, forse la mia situazione sarebbe stata meno sconvolgente. Qualunque argomento predicassi, io mi sentivo lì mandato dal padrone e forse anche pagato per persuadere gli operai a fare il loro dovere cristiano. Non dormivo più, volevo scappare, forse avrei dovuto farlo. Restai! Ma di ritorno a Lucca, dovevo scaricarmi di questo peso insopportabile. Andare a confessarmi da un mio confratello? La risposta era scontata: “tu hai fatto quello che dovevi fare”. Certamente ne parlai con Carlino. Non ricordo la sua risposta, ma ho portato con me la decisione di non tradire mai i poveri e i giovani usando la religione a favore di partiti politici che difendevano la pratica della religione. Eppure al nostro tempo di oggi questo avviene continuamente. Chi mi legge può pensare che la mia esistenza sia stata triste o almeno assai pesante, mentre chi mi ha incontrato credo non abbia riportato l’immagine di un essere curvo sotto il peso di angosce senza squarci di luce. Perché? Questo amore ferito si è aperto sul mondo, sull’umanità, sulla storia. Parole molto grandi; me ne rendo conto. Eppure la nostra piccola esistenza non è inserita nell’intera famiglia umana e più ancora nell’intera creazione? E nel tempo seppure breve della storia? Scoprendo questo, si vive nella realtà e aprire gli occhi sulla realtà vuol dire liberarci dal nostro piccolo io per il quale le sofferenze sono sempre troppo gravi e insopportabili e i piaceri e le gioie sempre troppo brevi e per questo deludenti. La scelta di essere prete, che forse presi in dormiveglia e credo sia così per ogni uomo che fa delle scelte che lo impegnano per la vita, mi ha poi messo in un cammino di disvelamento che durerà fino al termine. La meditazione costante del vangelo mi ha introdotto nella dimensione mistica della religione, alla scoperta non razionale ma sperimentale dell’amore ferito come un piccolo ruscello che scende dall’immenso “Mare pacifico”, come lo definisce Caterina da Siena. E quando l’amore ferito diventa amore per gli altri tutto il peso della vita scompare. Le parole del Maestro acquistano veramente il sapore della verità, della gioia, della libertà: “il mio giogo è soave e leggero il mio peso” (Mt 11,30). La gioia può nascere solo dalla consapevolezza del vivere; anche la religione è solo un peso insopportabile quando non apre al senso del vivere, a tutte le dimensioni dell’esistenza: “legano pesi opprimenti difficili a portare e li impongono sulle spalle degli uomini” (Mt 23,4). Ho accolto queste parole terribili rivolte a me e alla categoria cui appartengo. Ho capito che una religione che non libera non è sicuramente la religione di Cristo; la sua autenticità si prova nella libertà che il Fondatore ha portato all’umanità come dono di sua scelta. Parafrasando Jung potrei dire che la mia spiritualità è la mia vita ed è il mio stesso agire. Star bene al mondo vuol dire avere spento le note disarmoniche. Questi particolari della mia vita fanno apparire logica e coerente la scelta della teologia della liberazione. Prima che il progetto di Gesù della liberazione totale dell’uomo fosse presentato come teologia latinoamericana, avevo scritto il “Dialogo della liberazione” pubblicato dalla Morcelliana. Non ricordo se prima o dopo questo libro, ho conosciuto il pensiero di Emmanuel Levinas che da allora è l’orientatore della mia razionalità. A me appare chiaro e inconfutabile ciò che non pare così chiaro ad alcuni membri della chiesa docente, che la teologia della liberazione non è una contro o un’antiteologia, ma una teologia altra. Mentre tutte le teologie approvate o meno dalla chiesa sono dirette alla ricerca dell’essere misterioso di Dio, per poterne parlare in un linguaggio accessibile all’uomo sempre altro nel tempo, la teologia riprende la narrazione dalla decisione di Dio di accompagnare l’uomo nel suo cammino nel tempo. La decisione si chiama alleanza ed è continuata e divenuta più luminosa nell’incarnazione del Figlio Gesù. Questo nuovo metodo di parlare di Dio ha bisogno più di profeti che di sacerdoti e di teologi di professione. Il profeta deve annunziare quello che Dio attende dall’umanità del terzo millennio e quali aiuti Dio offre all’uomo presente in quel tempo per continuare ad essere un collaboratore utile alla sua insonne e incessante attività di creatore, rivelata a noi dal Figlio: “mio Padre è all’opera fino ad ora e anch’io sono all’opera” (Gv 5,17). Spero che nel nostro tempo risulti chiaro che i teologi dell’essere presentano un Dio che non è per tutti ed è tanto distante che i poveri uomini possono garantire che autorizza la guerra, che ci ringrazia per avergli dedicato una banca, e ci capisce perfettamente se facciamo ritornare ai loro paesi dei poveracci che per sbaglio lui stesso aveva indirizzato alle nostre case. La teologia della liberazione ci parla di un Dio tanto vicino a noi e tanto universale da poter essere capito da tutti. Nel discorso universale il vangelo rivolge ad ogni uomo una unica uguale domanda: “mi avete visto?”. Certo la teologia della liberazione ha più offerte di lavoro per i profeti, fra i quali preferisce poveri e ignoranti, e per questo si riapre inevitabilmente il conflitto: “ecco che io mando a voi profeti… ebbene di essi parte ne ucciderete mettendoli in croce, parte ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città… Gerusalemme Gerusalemme che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati” (Mt 23,34 segg.). Sarà sempre così? Non ho una risposta.
Arturo Paoli (2005)