di Nicola Colaianni su Repubblica-Bari del 17.03.2024
Gerusalemme tutt’attorno al tempio A c’era uno spiazzo, nel quale trovava posto il “cortile dei gentili”, accessibile anche al “greci”: cioè pagani, non ebrei. Alcuni di questi, attratti evidentemente dal suo messaggio, desiderano conoscere Gesù (Giovanni 12, 20-33). Si rivolgono a Filippo, un discepolo che sentono più familiare perché porta un nome greco, Ma Filippo è titubante e si consiglia con l’altro discepolo con nome greco, Andrea. Finalmente si decidono e insieme vanno a dirlo a Gesù. Perché tutta questa circospezione? E una situazione Inedita per loro, è la prima volta che entrano in contatto con non ebrei. In Galilea, infatti, Gesù non era andato a predicare nelle loro città, peraltro le più grandi quali Tiberiade e Sepphoris. E a loro stessi, mandandoli in missione, aveva raccomandato di rivolgersi solo alle “pecore perdute di Israele” (Matteo 10,6). E la prima volta, quindi, che sperimentano l’incontro con persone di diversa provenienza, cultura, fede, modo di pensare, stile di vita. Come dialogare con persone con cui si ha poco o niente in comune? Sono i problemi, quali anche noi oggi affrontiamo, di ogni società multiculturale, in cui la coesione non è presupposta per la comune cultura, ma è sempre da costruire perché ci si trova a con nuove differenze di di genere, che fare d etnia, religione, lingua, condizioni personali e sociali. Oggi il dialogo è favorito dal costituzionalismo, grazie al principio di laicità pluralista dello Stato. Ma all’epoca le comunità vivevano come compartimenti stagni senza rapporti tra le une e le altre, se non di inimicizia perfino tra ebrei, quali giudei e samaritani). Gerusalemme però era a capitale, un crocevia di gente diversa, anche straniera. Ecco spiegata l’esitazione dei discepoli: la paura dello straniero, Comunque Gest in quel momento “era turbato”. Aveva capito che lo avrebbero arrestato e condannato E. come tutti, aveva paura della morte. Era davanti ad una scelta drammatica. Pregare Dio che lo salvasse? Avrebbe significato rinunciare a denunciare il male. E invece “proprio per questo sono giunto a quest’oral”. Per aver scelto di “odiare la propria vita”, cioè di non amarla mettendola prima dell’amore per il prossimo. Infatti, solo “se il chicco di grano muore, produce molto frutto”. Non solo per gli israeliti ma, come dira nell’ultima cena, “per la moltitudine”, cioè per tutti. Perciò ripete ai discepoli quanto aveva detto riservatamente a Nicodemo: “è venuta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo”, cioè onorato, ma solo perché “innalzato” sulla croce. E da questo amore spinto fino al sacrificio di sé che quei greek conosceranno Gesù. Non da una dottrina cristiana, anche bene esposta, perché ogni dottrina è mediata attraverso una cultura, con un linguaggio diverso da quello di ascolta, Invece, il messaggio è un fatto, quel fatto. L’ingiustizia della morte in croce di Gesù, come segno dell’amore di di Dio per tutta l’umanità, e invero un messaggio interculturale. Il linguaggio dell’amore supera le barriere culturali, è universale. In fondo, come canta sognando Franco Battiato, “tutto l’universo obbedisce all’amore”.