di Nicola Colaianni su La Repubblica-Bari del 24.03.2024
“Passione e morte di Gesù Cristo nostro Signore”. Sono gli ultimi due capitoli del vangelo di Marco (da 14,1 a 15,47). Nelle celebrazioni liturgiche a questa lettura non segue la consueta omelia del celebrante. Il silenzio di tomba diventa parte integrante di quelle letture. Un discorso senza parole, pure da ascoltare perché è il silenzio di Dio, che si prolungherà lungo tutto il Sabato santo. Si susseguono immagini, persone, sequenze rilanciate da due millenni nelle arti, nella letteratura, nella musica. La cena che si rivelerà ultima per Gesù e i discepoli, ma anche la prima di quelle che d’allora si ripetono quotidianamente nelle messe e nei culti cristiani. Il tradimento di Giuda, forse illuso, chissà – lui, unico giudeo tra i discepoli e il più attaccato alla sinagoga di Gerusalemme – che all’arresto sarebbe seguito un di mediazione, di chiarimento tentativo reciproco con i sacerdoti e, constatata Invece una condanna a morte, si toglierà la vita. Un interrogatorio balordo nel sinedrio convocato di notte, seguito all’alba da un processo farsa, senza garanzie, uno dei tanti, del resto, in cui i sacerdoti pressavano il procuratore romano – ricorda Ponzio Pilato nel racconto di Anatole France – per ottenere la sottoscrizione delle loro funeste sentenze, per esigere la morte di un qualche infelice di cui io non potevo discernere il delitto”. Un povero cristo che si trovava passando dopo una giornata di lavoro nei campi, il cireneo, costretto dai soldati a portare la croce al posto di Gesù, che non ce la faceva più.
Sul Golgota, al momento del trapasso, solo le discepole donne, i maschi tutti dileguatisi (Pietro addirittura l’aveva rinnegato). E sulla cima, esposto al pubblico ludibrio con due delinquenti, il “Dio crocifisso” (Jürgen Moltmann). Uno scandalo per i giudei (ma per tutte le religioni, in effetti) e una stupidità per i pagani, come scrisse l’apostolo Paolo. Ma diventerà l’immagine eloquente dell’infinito amore di Dio, che soffre con tutti i martirizzati della storia. “Eccolo: è appeso Iì, appeso a quella forca”, è lavoce che sentirà in sé Elie Wiesel, costretto come gli altri prigionieri ad assistere all’esecuzione di un ragazzino ad Auschwitz. La voce che sentiranno in tante parti del mondo, di cui Gaza e l’Ucraina sono solo le più vicine a noi. Crocifisso per aver preso sul serio il precetto “ama il il prossimo come te stesso”. Queste parole scriveva Natalia Ginzburg su L’Unità nel 1988 – “sono la chiave di tutto. Sono il contrario di tutte le guerre. Il contrario degli aerei che gettano le bombe sulla gente indifesa. Il contrario degli stupri e dell’indifferenza che tanto spesso circonda le donne violentate nelle strade”. E fondano la “rivoluzione cristiana” dell’uguaglianza, il principio che oggi troviamo sparso nelle Costituzioni. “Perche – continua con una frase di rara potenza Ginzburg – prima di Cristo gli uomini nessuno aveva mai detto che gli sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini”.