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Testimoniare speranza

Il senso profondo e bello dell’amicizia

la convinzione di don Mario nasce dal vangelo: «non vi ho chiamati servi ma amici»

Ogni evangelista registra un’istantanea diversa di quel giorno convulso che cominciò con la visita delle donne al sepolcro. Fu per loro un momento di spavento e di paura, che Marco sottolinea: «fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno» (Mc 16,8). Giovanni invece, pur sottolineando la paura, insiste soprattutto sulla preoccupazione, da parte delle donne, di ritrovare il corpo di Gesù. Presenta quindi un’istantanea successiva, quando Maria di Magdala entra nella sala e riferisce l’accaduto e dopo la corsa di Pietro e Giovanni al sepolcro. Continuando nel racconto, giunta la sera, l’evangelista presenta l’esperienza dell’incontro con Gesù. Fu questa l’esperienza decisiva, perché la scoperta del sepolcro vuoto poteva ancora essere interpretata in diversi modi: le donne pensarono che il corpo fosse stato portato via; Giovanni sembra esprimere un inizio di fede – «vide e credette» – e cominciò a riflettere sulla possibilità della resurrezione. Altri avevano perso la fiducia e stavano andando via: Luca ricorda l’episodio dei due in cammino verso Emmaus, che fuggivano via. Neppure Tommaso quel giorno era lì con gli altri.
Gli evangelisti registrano quindi situazioni molto diverse, esperienze che si sono succedute tra timori, paure, gioia improvvisa. Ognuno registra un aspetto, ha un ricordo particolare di quel giorno. Questo è importante perché il cammino di fede procede attraverso esperienze anche semplici ma profonde; semplici perché avvengono nella quotidianità, consistono in emozioni o stati d’animo, percezione di una presenza, di un’azione di Dio che si svolge negli eventi di ogni giorno; ma sono esperienze che incidono perché diventano luce per capire tutto il cammino.
L’esperienza degli apostoli fu l’inizio del cammino che ancora noi continuiamo. È grazie alle esperienze che fecero gli apostoli che noi, dopo duemila anni, celebriamo quell’evento che è stato l’inizio di una fase nuova della storia umana. Vivere la fede significa infatti prolungare nel tempo quell’esperienza e le dinamiche di vita che ha suscitato. Quali sono queste dinamiche di vita? Ne sottolineo due: l’esperienza del perdono dei peccati e quella di una fraternità nuova, di una modalità nuova di vivere la comunione fraterna, lo scambio reciproco di doni.
Queste due esperienze sono alla radice del cammino della comunità cristiana, che oggi può continuare solo se quelle esperienze vengono rinnovate nella nostra vita. Altrimenti rimangono dottrina, convinzioni, ma non fioriscono in noi.
Allora fermiamoci un istante su questi due frutti (o fiori, se volete) dell’esperienza pasquale.

Il perdono dei peccati
I profeti, soprattutto Ezechiele e Geremia, avevano presentato come caratteristica della nuova alleanza la remissione dei peccati: «dimenticherò le loro iniquità, perdonerò i loro peccati» (Ger 31,34), come iniziativa di Dio, non come conseguenza di un’offerta, per esempio la sofferenza. Spesso, nei secoli successivi, abbiamo pensato che la sofferenza di Gesù avesse sollecitato il perdono di Dio, ma queste sono letture legate ai meccanismi che gli uomini vivono tra loro, mentre Dio non opera mai così. Gesù ha insistito molto su questo: «gratuitamente» dirà Paolo, riassumendo il pensiero di Gesù: «per grazia siete stati salvati».
Giunta la sera di quel giorno, quando Gesù si presenta ai discepoli la prima affermazione riguarda proprio questo aspetto: «Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (Gv 20,22ss.). Così dicendo, non ha dato a qualcuno il potere di rimettere i peccati, bensì ha dato a tutti i suoi discepoli il compito di perdonare i peccati dei fratelli. Ma cosa vuol dire perdonare? Perdonare i peccati al fratello non vuol dire “dimentico quello che hai fatto” oppure “ti assolvo, faccio conto che tu non abbia fatto quello che hai compiuto”; no, perdonare i peccati vuol dire dare il proprio amore, comunicare la propria forza vitale affinché il fratello esca dalla sua condizione. Ciascuno può e deve offrire questa energia di vita, energia di amore, perché è l’amore che fa uscire dal male, purché sia un amore vero, autentico, non una semplice parola o un gesto superficiale.
Essere capaci di offrire il perdono vuol dire anche essere disposti ad accogliere il perdono. A volte accogliere il perdono è più difficile che offrirlo, perché implica in primo luogo la consapevolezza e il riconoscimento pubblico di avere peccato, e questo non è facile perché noi troviamo sempre delle scuse per quello che abbiamo fatto. Inoltre, accogliere il perdono significa riconoscere che abbiamo bisogno degli altri, che non siamo autosufficienti, non è sufficiente pensare: «me la vedo con Dio, mi metto di fronte a Dio», perché l’azione di Dio non giunge in modo pieno, compiuto, se non c’è qualcuno accanto che ti ama, che ti offre energia per uscire dalla tua condizione. Nessuno è in grado di venire fuori dal suo male da solo, perché nessuno è in grado di darsi la vita da solo. Chi di noi è nato perché ha deciso di nascere? Chi di noi può crescere se non accoglie continuamente la forza che viene dall’alimento, dal sole, dall’amore degli altri, dalla vicinanza? È per questo che spesso la solitudine viene vista come ambiente di morte, mentre essere capaci di vivere la solitudine implica una certa capacità di accogliere i flussi di vita profondi che restano proprio perché si vive di fede e, attraverso la memoria, si recupera tutto il dono che gli altri ci hanno fatto durante la vita. Essere capaci di solitudine è segno di una grande maturità, altrimenti la solitudine diventa ambiente di morte. Riconoscere di avere bisogno degli altri è segno essenziale della maturità.
Capite allora perché le dinamiche della misericordia sono costitutive di una comunità matura. Quando, all’inizio di ogni celebrazione, invochiamo la misericordia di Dio, vuol dire che ci impegniamo a scambiarci gli uni gli altri doni di vita, a perdonarci reciprocamente. Perché il rapporto con Dio ha sempre una componente orizzontale del rapporto con gli altri; per questo Gesù ha unificato i due comandamenti dell’amore di Dio e dell’amore dei fratelli: è stata una sua iniziativa sottolineare questa unità profonda che poi Giovanni chiama il “comandamento nuovo”, anche se è antichissimo, ma nuovo nella prospettiva indicata da Gesù.
Celebrare la resurrezione del Signore come dono dello Spirito per la remissione dei peccati vuol dire, allora, celebrare la missione che ci è stata affidata di offrire continuamente perdono, ovvero doni di vita, energia di amore perché coloro che sono nel peccato escano da quella condizione. E più il male è grande, più l’amore deve essere potente per cui più una persona è nel male più esige di essere amata. Non è semplice, è uno dei comandamenti più radicali di Gesù.

La fraternità nuova
Il secondo messaggio fondamentale della resurrezione è quello della fraternità nuova, che nasce proprio da questo principio della rivelazione dell’amore di Dio. La fraternità che gli apostoli hanno cominciato a realizzare spontaneamente dopo la resurrezione, l’hanno chiamata con un nome diverso, “agape”, per indicare il passaggio essenziale che avevano compiuto. Già prima avevano sperimentato una certa fraternità, ma dopo la resurrezione hanno fatto un salto qualitativo che possiamo indicare come il passaggio dall’ambito morale all’ambito teologale: non più per eseguire una legge, per osservare un precetto, ma per rivelare l’amore di Dio. Con un’altra formula, possiamo anche chiamarlo il passaggio dall’ambito puramente psichico all’ambito spirituale, quello in cui la fonte è Dio, l’energia viene dallo Spirito. Per cui, chi vive il rapporto con gli altri nell’ambito spirituale vive accogliendo l’amore di Dio per poterlo esprimere. Non è una propria iniziativa, non è la buona volontà che esprime fraternità, amore, misericordia: è che si apre così all’azione di Dio, vive così alla sua presenza da interiorizzare il suo dono e farlo fiorire come offerta di vita per gli altri. Quando si giunge a questa esperienza si capisce cosa vuol dire essere discepoli del Risorto, di colui che ha donato lo Spirito risorgendo.
La ragione per cui molte volte le nostre comunità sono vuote, stanche, pigre è proprio qui: anche se pregano insieme ogni domenica, mancano dello slancio che viene dal rapporto con Dio.
Allora possiamo chiederci: se la storia avanza continuamente ed esige nuove qualità di rapporti di fraternità, di condivisione, di giustizia, noi stiamo rispondendo secondo queste dinamiche di vita, di fraternità, di condivisione? O ci stiamo invece chiudendo nei nostri egoismi, nella difesa dei nostri diritti e interessi rifiutando la novità di vita necessaria perché la storia umana possa procedere? Io credo che noi siamo rimasti indietro rispetto alla storia. Per questo è necessaria una decisione seria nella sequela di Gesù, che a volte può anche chiedere una radicalità assoluta, fino al martirio, da parte di alcuni o di alcune comunità; ma certo c’è una radicalità che anche noi possiamo vivere quotidianamente, anche se non corriamo il rischio della morte.
Questo è l’impegno che ci assumiamo celebrando la resurrezione del Signore.

DON CARLO MOLARI, presbitero e teologo, predicò l’omelia del giorno di Pasqua che qui proponiamo nella chiesa di San Leone Magno a Roma nel 2006.
Le dispense delle omelie, frutto delle trascrizioni curate da Ornella Stazi, non sono state riviste dall’autore ma ne riflettono fedelmente il pensiero e il messaggio. Al testo sono stati apportati pochi aggiustamenti di carattere formale.