Come scriveva Albert Einstein: «Chi non sa più provare stupore è come morto, i suoi occhi sono spenti». Infatti, sono il percorso e lo scatto della meraviglia a portare luce, anche creativa. A base della creatività, nei bambini e negli adulti, c’è proprio «la meraviglia emotiva». Ma che cos’è lo stupore? Lo stupore è la meraviglia che avvertiamo quando incontriamo qualcosa di potente che non riusciamo facilmente a spiegare. È uno sguardo che si allunga oltre noi stessi e quasi costringe a non essere risucchiati dalla vertigine dell’indifferenza. C’è una profondità alla quale non siamo abituati in condizioni normali, quando le nostre azioni sono regolate dalle lancette della fretta, dell’ora e subito, di un ossessivo presentismo. Ma quanto più gli occhi vanno oltre il nostro “ombelico”, tanto più ci si percepisce più “piccoli” del solito come una condizione positiva, che apre a una maggiore connessione con la realtà più ampia. Una delle testimonianze più intense di questo effetto sono le parole degli astronauti che hanno visto la Terra dallo spazio. La trascendenza del sé che accompagna lo stupore aiuta a spostare l’attenzione verso il “quadro generale” della situazione, prendendo in considerazione le prospettive ed i bisogni altrui oltre ai propri.
Lo stupore è certamente una porta di accesso al Bello: la natura ha una sua perfezione, una sua totale accuratezza nei meccanismi di funzionamento che può stupirci in qualsiasi momento. Il Bello è anche la meraviglia di un’opera d’arte, di un concerto, di un film, di un libro: a ben guardare, l’esplorazione nelle file del Bello attraverso la porta dello stupore è potenzialmente infinita.
Tra le esperienze delle quali rischiamo di non stupirci più c’è il dolore. Lo sentiamo distante, lontano, impossibile da condividere; troppo preoccupati del nostro destino individuale, in tempi di stravolgimenti improvvisi e anche di grandi cataclismi. È una sorta di assuefazione considerare la sofferenza degli altri come una regola, un tassello nel puzzle della vita, sul quale non ci sono domande da porsi. Invece rivolgere dritto lo sguardo verso chi soffre, chi è davvero in difficoltà, chi tende quella mano che non vogliamo stringere, significare utilizzare lo stupore per reagire: per non sentirsi comodamente rassegnati. E per avvicinarsi, lungo la sottilissima linea di confine tra la poesia e la spiritualità, a ciò che viene prima e dopo la materialità delle cose. Come scriveva Friedrich Nietzsche, «i poeti sono sempre profeti e viceversa».