Il senso profondo e bello dell’amicizia
la convinzione di don Mario nasce dal vangelo: «non vi ho chiamati servi ma amici»
FIORENZO DE MOLLI, relatore al convegno estivo di Civitella, ci ha detto di sé: «Per 17 anni ho fatto il prete, ho esercitato il ministero a Milano dai 24 ai 41 anni. Poi ho vissuto il mio
travaglio. Per fortuna Martini mi ha molto aiutato. Ho scelto di lasciare il ministero, sono
rimasto un anno da solo e poi mi sono sposato. Ho sempre vissuto in mezzo alla gente.
Mi sono laureato in scienze dell'educazione e adesso frequento il “Malabrocca”,
come noi chiamiamo la Casa della carità, in onore del ciclista che arrivava ultimo
nelle gare e vinceva la maglia nera.
Riportiamo una sintesi del suo intervento sul tema "Il coraggio di custodire le relazioni".
La Casa della carità è una creatura del Cardinal Martini. È il regalo che ha fatto a Milano, come lui stesso disse al Consiglio comunale nel giugno 2002, prima di lasciare la città: «Lascio alla città un regalo che è la casa della carità perché sia un’attenzione ai più sprovveduti». E la Casa accoglie tutti: donne, bambini, anziani, stranieri e non stranieri, sani e malati… Nella Casa c’è una piccola cappella, che è come il cuore: pulsa e dà senso a quello che facciamo, ma non deve essere esibito in maniera strumentale.
In questi anni di lavoro alla Casa, ho frequentato rom, detenuti, senza fissa dimora, malati mentali e tutti i giorni sono messo in relazione con loro, ma non sono uno studioso in senso stretto. Il cardinale Martini invitava tutti gli operatori: «Voglio che la Casa della carità sia una casa intelligente, che abbia uno sguardo sulla città». Non basta fare, bisogna anche riflettere sul fare.
Vorrei allora riflettere su alcune parole: coraggio, relazione, coltivare.
Monsignor Delpini, il vescovo di Milano, lo scorso sant’Ambrogio, nel suo discorso alla città ha parlato dell’epidemia della paura, dei seminatori di paura e ha detto che «il coraggio uno se lo può dare», perché l’umanità merita fiducia. L’opposto della celebre frase di don Abbondio, chiuso in sé stesso, che non vuole né vedere, né sentire, né incontrare.
Il criminologo Adolfo Ceretti, autore di un libro sulla paura, cita l’espressione «accecato dall’odio»: in effetti, quando provi odio non vedi l’altro, sei cieco, l’altro non è più una persona. Il cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, don Claudio Burgio, quando parla con i ragazzi li guarda negli occhi e dice loro: «mi fido di te». È un guardare, un riconoscere l’altro che dà coraggio. Il coraggio è “cosa del cuore”, è vedere l’altro, ascoltare l’altro, riconoscerlo. Se tu lo riconosci, lui riconosce te.
Il rischio, per chi fa un lavoro come il mio, è quello di rendere l’altro “oggetto” della sua missione. Frédéric-Marie Le Méhauté, francescano autore del libro Rivelato ai piccoli, una teologia in ascolto dei poveri, scrive a proposito del bacio di san Francesco al lebbroso: «Il lebbroso rischia di essere ridotto a mero oggetto della nostra pietà, una occasione per soddisfare questo terribile bisogno di fare del bene, non per far davvero del bene agli altri, per stabilire la giustizia. Per noi quel che conta è il bacio. Noi esaltiamo Francesco perché ha baciato il lebbroso, ma del lebbroso non ci importa nulla». No, il lebbroso conta, ma è davvero difficile considerare l’altro come soggetto, cioè sapere che l’altro non lo conosci, non sai chi sia quell’altro, se non che è un mondo a sé. La tentazione, invece, è catalogare l’altro, è pensare «un tipo così io lo conosco già»… Non esistono i poveri, i tossicodipendenti, i detenuti, le prostitute, gli stranieri, esistono Mario, Giuseppe, Giuseppina, Mohamed… La fatica nostra è guardare l’altro in faccia e amarlo.
Allora devo tenere sempre presente che, quando entro sul terreno dell’altro, devo togliermi i calzari dai piedi: «Mosè, togliti i calzari perché quel che tu calpesti è un luogo sacro» (Es.3). Togliti i calzari, entra con delicatezza nel mondo dell’altro. L’altro è quella persona che, se vuole, ti racconta quello che ritiene opportuno, che ti svela e manifesta quel pezzo di sé che pensa sia importante farti conoscere. È un pezzo di sé parziale. Vent’anni fa, arrivò alla Casa un ragazzo splendido, cubano; lo abbiamo accolto, è stato a lungo con noi, dopo diversi anni abbiamo scoperto che era rumeno. Noi l’abbiamo accolto per come lui si è manifestato: si è presentato come Carlos, per noi era Carlos, cubano. L’altro va accolto, perché è un bene ben preciso, che dice una vita e una storia.
Ogni volto è un percorso di vita. E il percorso di vita non è disegnato da risultati e obiettivi. Il percorso di vita a volte è fatto a tornanti, a volte si scende e poi si risale. Importante è seguire con passione il percorso di una persona, con tutte le tappe tortuose che uno può attraversare.
L’altro aspetto fondamentale è cogliere la dignità della persona, così come è. Pensate al vangelo della Samaritana. Gesù riconosce la donna che incontra al pozzo con la sua vita, con il suo dolore, con le sue fatiche. Non le ha dato una ricetta, un consiglio, un compito da seguire. Le ha voluto bene «gratis».
Detto ciò, devo anche domandarmi, nella relazione, «cosa provo io? cosa sento? come reagisco davanti all’altro?», perché io ho il potere in mano, posso usare la seduzione, posso essere chiuso e freddo davanti all’altro, posso giudicarlo.
Infine, l’ultimo aspetto è coltivare l’interesse per l’altro, per la relazione, nel mare aperto della vita e degli incontri. C’è sempre un limite nel conoscere l’altro ed è questo limite che dice quanto sia fondamentale intessere relazione. Porto due casi concreti.
Il primo riguarda una donna tunisina che ha sposato un carcerato. Io ero testimone al loro matrimonio civile. Lui era già malato. Dopo il matrimonio ci spostiamo in un barettino per l’aperitivo e lei, Aida, dice: «Che bello! Finalmente torniamo in Tunisia dai miei genitori!». Sono rimasto sbalordito, mi è venuta la pelle d’oca perché lui doveva scontare ancora 15 anni di carcere. Poi il povero Stefano, così si chiamava, nel giro di un anno e mezzo è morto. Al funerale, che abbiamo celebrato nella sala mortuaria, eravamo lei, io e un altro prete. Aida mi disse: «Stefano era un bambino che aveva una parte buona, una cattiva e una bugiarda. Io ho sperimentato la parte buona e la parte bugiarda». Si era accorta che lui ogni tanto diceva di andare dal dottore, mentre andava dall’ex. A volte portava anche a casa la sua l’ex. E lei l’accettava.
E mi diceva: «Stefano è rimasto un bambino, era buono e non gli hanno mai voluto bene. Ecco perché era così».
Il secondo caso è quello di un senza dimora che è stato alla Casa della carità. Quando è morto ho scritto per lui questo “coccodrillo”: «Ha vissuto gli ultimi mesi sotto la metropolitana alla fermata del duomo di Milano. Si chiamava Emilio, aveva lasciato l’abitazione che riteneva fosse la strada, convinto dall’arguta e coinvolgente simpatia di Corrado, uno della CGL, ed era stato accolto in Casa in un freddo giorno di fine novembre 2008. Ha abitato la Casa nel massimo della discrezione e leggerezza, mai una richiesta, mai una discussione, una presenza reale quasi impercettibile. La sua scheda sociale al momento dell’attivazione è risultata estremamente scarna. Non ha voluto neppure consegnare una fotocopia del documento e ha detto solo la data di nascita.
Gli ultimi mesi nella Casa sono stati vissuti nel silenzio meditabondo, con interminabili avanti e indietro nel corridoio della macchinetta del caffè: mani dietro la schiena, sguardo a terra pensieroso, finché in un freddo giorno di fine dicembre 2010 la sua scarna inderogabile comunicazione: torno a casa mia, la strada.
Nei primi anni era possibile scambiare un saluto e qualche parola sul come va, con la risposta: è dura ma sto qui. Lui, a terra con un sacco a pelo, ti obbligava a inginocchiarti per parlare, come si fa quando si vuole contemplare Gesù presente nel tabernacolo. E nel suo volto indecifrabile si vedevano i lineamenti del Maestro. Negli ultimi tempi non permetteva a nessuno di avvicinarsi. Tutte le migliori energie della Milano Solidale, Progetto Diogene, Croce Rossa, Ronda della Carità, Servizi Sociali, Polizia Municipale, tutti erano pronti a intervenire qualora avesse fatto un minimo cenno di richiesto di aiuto. Nulla. Emilio, come un padre del deserto, ha scelto di abitare nel suo eremo silenzioso e inaccessibile situato nel cuore della città, la banchina della metropolitana gialla stazione Duomo.
La sua presenza nell’eremo era un pugno nello stomaco per tutti, raccontava dell’estrema solitudine di ogni uomo di fronte all’esistenza. Da grande eremita, mentre ci si preparava la notte nella quale il Dio con noi ha scelto di abitare la terra, nel più grande silenzio, gravido di mistero, ha lasciato l’eremo. Nessuno l’ha più visto, ha compiuto il grande passo, nel più assoluto anonimato, solo il numero di telefono in tasca, quello della sorella.
Solo dopo qualche giorno si è scoperto che nella Notte Santa Emilio è nato al cielo dove ha trovato casa, la dimora drammaticamente cercata per una vita.
Abita la Gerusalemme celeste dove lo splendore della sua vita, ai nostri occhi incomprensibile, misteriosa esistenza, ora è luce luminosa agli occhi del Dio della vita».
Mi emoziona ancora, perché è veramente il limite della relazione con l’altro, che si ferma laddove l’altro, che è territorio sacro, va rispettato per quello che è.
In tutti questi anni ho imparato che l’unica categoria che mi permette di accostarmi all’altro e di capirlo è la contemplazione.
Non ce n’è un altro.
Noi siamo capaci di contemplare le albe, i tramonti, i paesaggi, ma il soggetto più affascinante è l’altro. E quando lo contempli, con gli occhi con cui guardi la natura, non dici niente, lo guardi a bocca aperta. Allora, se contempli l’altro, riesci a entrare in sintonia con lui, a capirlo.