da “Oreundici” di settembre 2002
Oso mettere accanto questi due nomi lontani fra loro nel tempo, nelle scelte di vita come sotto altri aspetti, perché mi ha colpito il fatto di trovare nella vita di fratel Carlo di Gesù – come lo chiamiamo noi piccoli fratelli – una verifica del pensiero centrale del filosofo ebreo. Gli studiosi di Lévinas sanno che al centro del suo pensiero sta l’apparizione del volto.
Trovo questa idea centrale raccolta in una breve sintesi nel libro del giovane filosofo della linea lévinassiana Sandro Tarter: “L’estrema semplicità di questa idea (il volto dell’altro) rimane non compresa perché il volto ci affida in realtà l’unico limite vero del nostro apprendimento. Limite che inaugura un conflitto drammatico tra la possibilità della violenza e quella dell’etica. E anche se il primato di quest’ultima è comunque sancito dall’impossibilità della prima a raggiungere il proprio scopo, non per questo è assicurato l’esito del conflitto. Il volto indica l’altro come separato, come a sé da rispettare come ineguagliabile ossessione e tentazione di potere, come massima sfida di possesso e di sovranità e, in questo limite, da eliminare, da sopprimere, da”uccidere.”” (1). E, continuando con le parole stesse di Lévinas: “Questa tentazione di omicidio e insieme la impossibilità costituiscono la visione stessa del volto. Vedere un viso è già dire: “non uccidermi” o udire “giustizia sociale””.
Cominciamo con il chiarire questi concetti. Pensate a questo volto rappresentato da un kurdo sbarcato sulla nostra terra. Magari è un intellettuale spogliato di tutta la ricchezza, possibilità, diritti che gli ha conferito la sua professione. Ora è un volto nudo, drammatico, che affida se stesso all’altro. S’incrocia con un intellettuale o un qualsiasi lavoratore non manuale. Quest’apparizione rompe la continuità delle attività dell’altro (limite che inaugura il conflitto). La domanda silenziosa dell’immigrato è tanto forte che esige una risposta. Eticamente quest’uomo ha il diritto all’ospitalità; ma l’italiano ha tutta la libertà di rifiutare questo diritto e al posto dell’etica scegliere di ucciderlo come portatore del diritto di ospitalità e vederlo come invasore. Mi fermo qui quanto basta per il mio tema.
Carlo de Foucauld arriva improvvisamente alla fede, non dall’ateismo, ma piuttosto dal nichilismo, dal nulla, spinto dal desiderio di uscire fuori dal “pathos del nulla” (Salvatore Natoli). E la fede gli si presenta non come formula del credo ma come persona, la persona dell’uomo Gesù che ha scelto “l’ultimo posto”. Dunque – conclude fratel Carlo – se lo voglio trovare, lo devo cercare all’ultimo posto. Dove? Questo è il problema. Tralascio la storia delle sue ricerche. E’ entrato alla trappa e viene mandato in Siria. Una notte fra Alberico (il suo nome religioso) viene mandato ad assistere un povero anziano solo, che è più vicino alla morte che alla vita. Nella veglia ascolta il messaggio che senza parole gli invia il vecchio steso sul giaciglio. Ecco l’ultimo posto. Tornando alla trappa al suo posto, ti pare che abbia una pur lontana somiglianza con questo? Questo vecchio muto diventa una vera ossessione (Lévinas), fra Alberico ora dipende totalmente da lui (ôtage – ostaggio). Il superiore della trappa non ha più nessun potere su lui. Il vecchio, che nel frattempo è morto, comanda che lasci la trappa perché lì non troverà mai l’ultimo posto. E’ facile immaginare quanti argomenti avranno trovato i superiori – particolarmente il padre maestro dei novizi per trattenerlo, invitarlo a riflettere: “non può prendere una decisione così importante sotto l’influenza di una emozione”. Rifletti, prega, attendi. Ma fra Alberico è sotto la stretta tenace di una obbedienza che non gli permette altra scelta. Bisogna uscire, andarsene. Fuori di lì non troverà subito quello che cerca. In fondo l’ultimo luogo è un’astrazione che può contenere molte storie anche contraddittorie. E’ molto possibile che Giovanni XXIII abbia trovato l’ultimo posto nel palazzo costruito dall’orgoglioso Giulio II della Rovere. Il suo punto di riferimento per non perdersi in questa ricerca difficile è l’Abbé Huvelin sua guida; ma non può liberare il suo discepolo da questa ossessione. E dopo alcuni anni dall’abbandono della trappa, lo troviamo in Algeria a costruire da solo l’ultimo posto. Nessuno gli può insegnare il suo ultimo posto. Lui è nato e cresciuto in uno dei tanti “primi posti” e ci si è trovato bene. E lo ha goduto quanto poteva: ha intravisto l’ultimo posto nel vecchio morente che dal suo giaciglio lo ha licenziato dalla trappa e lo ha rimesso alla ricerca. Ora finalmente solo a Beni Abbès può costruire il suo luogo: forse l’ultimo posto è quello dell’uomo solo, c’è un fondo più fondo della solitudine? E comincia a costruire con il materiale più povero possibile la baita che sarà il suo eremo. E’ appena a un metro circa da terra quando vicino passa un mendicante anziano che si ferma davanti al costruttore straniero. Sarà un nuovo abitante? Il monaco sa che i musulmani conoscono la preghiera e cerca di spiegare che sta costruendo una cella per chiudersi dentro a pregare. Ed ecco apparire un altro che gli porta un ordine: solo ma non in solitudine. Gesù è vissuto dandosi agli uomini. Ora finalmente l’ossessione dell’ultimo posto è superata perché i poveri, quelli dell’ultimo posto, lo hanno preso fra loro, lo hanno fatto uno di loro, eremita sempre ma a porte aperte: “Quanto dobbiamo al prossimo, quanto gli devono il nostro cuore, il nostro spirito!” … non c’è credo parola del Vangelo che abbia fatto su di me impressione più profonda e abbia trasformato maggiormente la mia vita di questa: “Tutto ciò che fate a uno di questi piccoli lo fate a me”. Lo stare con gli ultimi per l’ex ufficiale francese non è una scelta unicamente di tipo affettivo, si fa come loro senza cancellare la differenza: lui ha una responsabilità che loro non possono assumere. Sente che non sarebbe fedele a Gesù sulle cui orme ha avviato la sua esistenza se non tenesse presente le due indicazioni che appaiono continuamente nella Bibbia come richiesta di Dio: il diritto e la giustizia. E alle autorità della Chiesa che scelgono una linea di silenzio e di compromesso non teme di scrivere con molta chiarezza: “Non sono del vostro parere là dove, secondo me, vi rassegnate troppo facilmente al male”. “Lungi da me il desiderio di parlare o di scrivere: ma io non voglio tradire i miei figlioli e non fare per Gesù che vive nelle loro membra ciò di cui hanno bisogno. E’ Gesù che si trova in questa dolorosa condizione… Io non voglio essere cattivo pastore, né cane muto. Ho paura di sacrificare Gesù alla mia quiete e al mio forte gusto per la tranquillità e alla mia codardia e timidezza naturale”. Da quando ha intuito che il suo percorso di fede è affidato a Colui che il Vangelo gli indica come il solo Maestro, ha risolto di stargli vicino nella sua presenza che la chiesa addita come preferenziale. E i suoi appunti spirituali hanno come tema centrale l’Eucarestia, ma “gli altri” simboleggiati nel volto dell’altro lo salvano dal perdersi in una solitudine mistica allontanandolo da quella responsabilità che è di ogni persona, qualunque sia il suo stato di vita. E’ vero, Gesù ha scelto l’ultimo luogo ma ha promesso di stare con loro, con quelli che ha scelto, fino alla fine del mondo. Se è vero che Gesù è il più umano il segno di averlo trovato e di aver ricevuto il suo spirito, non può essere che quello di stare nel mondo mostrando di aver superato “il conflitto drammatico” e di stare con gli altri come vero amico e vero fratello. E questa sarà l’ultima tappa dell’eremita.
Ha espresso continuamente il desiderio di poter celebrare l’Eucarestia e ha sollecitato dal suo Vescovo l’autorizzazione di celebrare solo, e lo supplicava di chiederla a Roma, ma nell’ultima tappa, quella vissuta nell’Hoggar in mezzo ai tuareg vede il suo Amico fra gli amici e al vescovo che sembra aver trovato la soluzione al suo desiderio di celebrare l’Eucarestia in una piccola comunità cattolica risponde con la sua consueta umile fermezza: “Un tempo ero portato a sacrificare sempre tutto alla celebrazione della santa messa, però questo ragionamento deve peccare in qualche cosa perché dagli apostoli in poi i più grandi santi hanno sacrificato in certe occasioni la possibilità di celebrare per delle opere di carità”.
Questo accostamento di Lévinas con De Foucauld per me è segno di un avvenimento importante della nostra epoca. L’orientamento fenomenologico del pensiero nell’Occidente cristiano, indica una svolta irreversibile nella nostra cultura che non può non coinvolgere il linguaggio della fede e della spiritualità. Lévinas non sarà quello che è stato Aristotele per la teologia tomista né è desiderabile. Ma l’indirizzo fenomenologico è il solo che può riempire la carenza di un’etica che scopre oggi le conseguenze più tragiche. La spiritualità vissuta da Carlo De Foucauld non permette distrazioni né digressioni. E’ la semplicità stessa: da Gesù agli oppressi, agli ultimi e inevitabilmente da Gesù al diritto e alla giustizia. La teologia della liberazione è già su queste tracce. A chi trova pretesti “spirituali” per non sporcarsi le mani, il mistico solitario dell’Hoggar dichiara: “C’è un caso in cui bisogna resistere al male con la forza… è quando si tratta non più di difendere se stessi ma di proteggere gli altri… Occorre forza per difendere i deboli, gli innocenti oppressi contro i loro oppressori… Lo spirito di pace non è uno spirito di debolezza ma uno spirito di forza”. “Volete sapere di quale forza parli fratel Carlo di Gesù? Della violenza militare? Della guerra giusta? No, parla di quella descritta da Geremia: Ed ecco io oggi faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il
paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i sacerdoti e i possidenti: ti combatteranno ma non prevarranno” (Ger 1,18-19).
Charles de Foucauld (1858 – 1916) nel 1876 entra nella scuola militare di St. Cyr ed esce nel 1878 col grado di sottotenente. La carriera militare, però, si interrompe nel 1881 quando viene messo fuori servizio per condotta dissoluta. Su sua richiesta è reintegrato, come tenente degli ussari, nell’armata che va a combattere in Algeria. Durante la campagna militare De Foucauld conosce l’Africa e il mondo musulmano e ne rimane affascinato. Il contatto con l’islam provoca in Charles de Foucauld un profondo turbamento, e suscita in lui il desiderio di una ricerca religiosa e spirituale. Nell’86 parte per la Terra Santa dove matura la decisione di entrare nella Trappa di Notre-Dame des Neiges e poi in quelle dell’Armenia e dell’Argeria. Studia teologia e va a Nazareth, dove vive per tre anni come giardiniere nel monastero delle clarisse. Ordinato sacerdote, sceglie di ricominciare dal Sahara e di vivere a Bèni-Abbès con i Tuareg. Decide di fondare una famiglia religiosa incentrata sul Vangelo, sull’Eucarestia e sulla vita apostolica. Ma non giunge a realizzare il suo proposito perché il 1° dicembre 1916 viene ucciso da una fucilata durante una scaramuccia provocata dai ribelli dell’Hoggar.
Emmanuel Lévinas (1905 – 1995), di origini lituane e religione ebrea, forma il suo pensiero filosofico influenzato dalla religiosità ebraica e dalla cultura russa, con la quale viene in contatto a causa della prima guerra mondiale quando la sua famiglia si trasferisce in Ucraina. Nel 1923 Lévinas si trasferisce in Francia, dove frequenta l’università e incontra i filosofi Husserl e Heidegger. Nel ’39, quando scoppia la seconda guerra mondiale, Lévinas viene fatto prigioniero e conosce personalmente le persecuzioni razziali. Alla fine della guerra, rientrato in Francia, viene eletto Direttore generale della Scuola normale israelita orientale. Da questo momento inizia la sua grande produzione di testi filosofici e di studi, tra cui la sua opera fondamentale “Altrimenti che essere”. Muore a Parigi il 25 dicembre 1995.