da “Oreundici” di luglio 2004
E’ come incontrare per un istante la realtà invisibile, spogliata di tutti i pensieri, i sentimenti, i bisogni e i desideri
Il tema di Trevi mi appare come uno di quei tasselli che improvvisamente si stacca da un mosaico e cade ai piedi di colui che contempla l’opera d’arte e si ferma a guardarlo un momento, sorpreso. Penso al famoso verso che si stacca da un poema che Ungaretti porta in sé: M’illumino d’immenso. La semplicità non è dell’uomo che emerge da un cammino di circa due milioni di anni, quando appare su quell’insieme di elementi il pensiero ordinatore che cerca l’unità nel molteplice. Nel centro di Lucca, la mia città, una lunga via vicino allo sbocco si ferma per formare un’ansa che accoglie una chiesetta dalla bella facciata romanica in bianco e in nero, deponendola su una piazzuola. Di fronte sta la casa di Gentucca, la giovane che tanto piacque a Dante Alighieri da fargli piacere la città condannata per i politici disonesti . Quasi sempre chiusa, vi ero entrato da adolescente e mi ero perso a guardare gli stucchi, gli angeli di gesso che svolazzando reggevano corone dorate, sante e santi che forse si annoiavano in quella piccola Versailles. La chiesa restò chiusa per anni, si diceva che sarebbe diventata il tempio dei martiri fascisti. Finalmente fu riaperta e ricordo come una delle emozioni artistiche della mia vita: mi fermai all’entrata pensando di non essere lì. Tutti gli stucchi erano spariti, il chiassoso interno non esisteva più e mi trovavo davanti tre navate silenziose nella loro autentica bellezza. Ci ripenso oggi nel tentativo di spogliare le parole per dirvi che semplicemente vivere è come vedere per un istante questa realtà invisibile, spogliata di tutti i pensieri, i sentimenti, i bisogni e i desideri, che sono i movimenti della vita e il nascondimento della vita. È come risalire alla sorgente navigando su un lunghissimo fiume e trovare un umile getto cristallino che perennemente canta la gioia di gettarsi in un percorso che attraverserà città e boschi. Vi saranno tratti fra pietre che lo lacereranno disperdendolo in varie direzioni separandosi per unirsi finalmente ed entrare nella pace infinita del mare.
Se osiamo convocare amici e sconosciuti a un convegno che è all’insegna del semplicemente vivere, dobbiamo avere in mente che possiamo indicare qualche esperienza nuova oltre le varie ginnastiche fisiche e psichiche che aiutano a fare sopportabile la vita piuttosto che puntare sul cambio di qualità. Aprendo il vangelo vi troviamo al centro la parola vita. Gesù dichiara che la sua ragione di essere al mondo, è quella di dargli la vita, che il mondo viva, io sono la vita. L’aggettivo soprannaturale non è ebraico, non è nel vocabolario di Gesù. È accettabile l’aggettivo spirituale a condizione che lo spirito non sia pensato separato dalla carne, ma unito, magari con periodi di litigio come in una coppia che nei periodi turbolenti pensa separarsi, in altri più calmi ma sterili, al principio dell’invecchiamento, decide rassegnarsi e, nel migliore dei casi, i due elementi si fondono e vivono un tempo di vera gioiosa comunione. Gesù nel proporre la vita ricorre alla legge biblica: ama il prossimo tuo come te stesso, poi in altra parte pare contraddirsi: chi ama la propria anima (vita), deve perderla. Egli dichiara di aver tanto amato i suoi e la sua stessa vita da darla totalmente senza resistenze come agnello portato al mattatoio. Dunque come la mettiamo? Cominciamo coll’affermare che Dio vuole che lo stare al mondo sia fonte di gioia, il mondo è stato fatto perché ci stiamo bene dentro. Nei due milioni di anni in cui l’uomo è qui, cerca di migliorare le condizioni del suo habitat impegnandosi per maggiori comodità di vita. Se la religione ha negato talvolta questa intenzione che dirige l’amore umano limitandosi a consolare il povero Giobbe tormentato da torture intollerabili, e talvolta creandone di più gravi, la colpa non ricade su Dio e meno su Gesù, ma fondamentalmente su progetti umani creati per giustificare i nostri egoismi e i nostri bisogni di piaceri immediati e in questa post-modernità la persona appare costretta da tali forze esteriori, che non ha la libertà di pensare che forse esiste un’altro metodo di stare al mondo. E la religione invece di essere fedele al progetto: dove è Cristo c’è la libertà, non sapendo dare un contenuto reale a questa libertà dono di Cristo agli uomini, vi colloca dentro leggi e moralismi, facendo insopportabili i pesi che già gravano sulla infelice umanità. Gesù è finito sulla croce non perché il Padre lo abbia condannato a prendere il posto meritato da noi peccatori; ma ha vissuto come l’uomo per gli altri e ha collocato nel mondo tali dinamiche di amore cui ciascuno di noi può attingere per evitare le sofferenze inutili e star bene al mondo, contribuendo alla felicità degli altri che vivono insieme con lui queso spazio di tempo.
Mi pongo spesso due domande che vorrei girare agli amici che interverranno a Trevi e a quelli che si interesseranno ai risultati del convegno: È possibile star bene al mondo evitando di essere altruisti e rifiutando di sacrificarsi per gli altri? È possibile star bene al mondo senza liberarci del giogo religioso? Prendo il giogo religioso come il più grave perché il cristianesimo è un progetto di liberazione deformato. Quando Gesù invita a prendere il suo giogo evidentemente polemizza col giogo religioso dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei. Quanti progetti di liberazione sono diventati tirannie nella storia e si sono estinti dopo aver versato sangue umano a sufficienza. Il progetto cristiano è affidato allo Spirito che lo rinnova continuamente, e la persona religiosa che segue lo Spirito arriva a vedere chiaramente che, se le prescrizioni religiose, le varie teologie, i sacramenti, non ci aprono le vie che direttamente conducono all’incontro con Cristo liberatore dell’uomo totale, sono pesi insopportabili nella direzione della morte. Non oserei sostenere queste affermazioni fondandole sulle mie esperienze, ma le ritroviamo nella dottrina di Paolo: Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito, costoro sono figli di Dio, e voi non avete ricevuto uno spirito di schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo “Abbà, Padre!” ( Rm. 8, 14-15). Nella lettera ai Galati pieni di paura per l’audace predicazione di Paolo, il predicatore usa parole molto forti affermando l’universalità della salvezza, non privilegio di un popolo: Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: “Maledetto chi pende dal legno”, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede (Gal. 3, 13-14). Dobbiamo sperare che la chiesa cattolica cambi metodo. Finora con molta diligenza ha creato scuole di catechismo con i suoi gradi e le sue promozioni. Non ha fatto altrettanto per formare dei centri di iniziazione per portare i fedeli sul cammino che va dalla condizione di schiavi della legge all’amicizia liberatrice del Cristo. Oggi sono gli intellettuali che si dicono fuori della chiesa, come Alberto Asor Rosa e altri, che in questa situazione di schiavitù generale chiedono alla chiesa di schiodare il Cristo dalla croce per restituirlo all’umanità. Certo non è facile incontrare la vita spogliata dalle pesantissime vesti di cui poco a poco è stata ricoperta, ma oggi l’impegno di noi credenti è quello di unirci alla richiesta stizzosa e qualche volta mordace di quei pensatori che stanno in attesa e rivolsero già alla chiesa presieduta da Paolo VI la domanda: Che cosa puoi dare oggi al mondo?
Il semplicemente vivere include l’atteggiamento di fronte al dolore: non cercarlo, non procurarlo, accoglierlo coraggiosamente e silenziosamente. A questo proposito scrive Lévinas: Sofferenza in me, così radicalmente mia che essa non potrebbe divenire soggetto di qualche predicazione… è come sofferenza in me e non come sofferenza in generale, ma è la sofferenza benvenuta, testimoniata nella tradizione spirituale dell’umanità, può significare un’idea vera: la sofferenza espiatrice del giusto che soffre per gli altri. Penso alla tradizione ebraica che mi è familiare, al “io sono malato d’amore” del Cantico dei Cantici, alla sofferenza di cui parlano alcuni testi talmudici, sofferenza per l’amore degli altri a cui si lega il tema dell’espiazione. Bisogna vivere e trasmettere l’annuncio cristiano nella sua semplicità originale, questo annunzio è sostanzialmente la salvezza del mondo. Vedere tutto il dolore umano, la violenza scatenata oggi piú forte che ieri, come un’attesa di salvezza che apparentemente cancella quello che la chiesa annunzia al mondo, che Cristo lo ha salvato. Credo che oggi dovremmo dire piuttosto che il Cristo sta liberando e salvando il mondo con noi e per mezzo di noi e non senza di noi. Questo annunzio darebbe un senso nuovo e vero al nostro vivere. La sofferenza è una energia irreversibile e la vediamo spesso sprecata sia da chi la rifiuta, sia da chi la accoglie con stoicismo narcisista. La proposta cristiana è di accoglierla coraggiosamente perchè, ispirati dalla fede, sappiamo che entra come energia di salvezza per l’umanità.