da “Oreundici” di settembre 2003
Ho scelto questo titolo per il mio articolo perché quest’anno ho sentito in modo particolare il vento dello Spirito nel nostro incontro di Trevi, e vorrei sviluppare con voi, amici di Ore undici, le idee che sono affiorate in quella settimana di agosto. Al termine, Carlo Molari ha affidato ai convegnisti che stavano per partire due idee importanti: nell’occidente sta avvenendo un cambio di cultura, e questo porterà una semplificazione alla nostra fede religiosa. Su queste due idee vorrei iniziare una riflessione comune che conferirebbe un’importanza notevole a questa nostra rivista, facendola strumento di comunicazione tra noi. Ognuno di voi potrebbe partecipare a questa ricerca comunicando alla redazione le proprie riflessioni che possono essere di grande importanza per il momento che viviamo. Il cambio di cultura cui accennavo, non è certo poca cosa: è in gioco il passaggio dell’uomo da rationalis naturae individua substantia (un essere individuo di natura razionale) a un essere – relazione che vive con gli altri e degli altri, fra gli oggetti della natura e degli oggetti della natura. Quindi non più individualità ma alterità, non più razionalità come qualità dominante, solitaria, legge a se stessa, ma responsabilità e impegno di contribuire a una convivenza orientata dall’ideale della giustizia e della pace. Come? Riscoprendo i valori della giustizia e della pace dal basso (Asor Rosa) come parole nuove che ritroviamo profondamente ferite nella situazione concreta dei vinti.
Voglio cominciare comunicandovi la mia commozione e la mia sorpresa nel trovare delle coincidenze in pensatori che partono da diverse posizioni. Emmanuel Levinas nell’aprile del 1968 fu invitato dai colleghi universitari a tenere una conferenza nella settimana dei cattolici francesi che si celebrava a Parigi in quella stagione. Gli veniva affidato il tema: Un Dio uomo? Come ebreo Levinas si riteneva il meno adatto a parlare dell’incarnazione del Verbo, accettò l’incarico per amicizia. E superò l’ostacolo, schivando il concetto di incarnazione e rappresentando il Dio che si umilia, si svuota per avvicinarsi all’uomo. E coglie questo abbassamento nella storia dell’uomo Gesù narrata nei vangeli: manifestarsi come umile alleato del vinto, del povero, del perseguitato significa appunto non rientrare nell’ordine. In questa disfatta, in questa timidezza che non osa osare, con questa sollecitazione che non ha la sfacciataggine di sollecitare e che è la non audacia stessa, con questa sollecitazione di mendicante e di senza patria che non ha dove posare la testa, alla mercé del sì e del no di colui che lo accoglie – l’umiltà scombina in maniera assoluta, non è del mondo. L’umiltà e la povertà sono un modo di stare nell’essere, un modo ontologico e non una condizione sociale. Presentarsi in questa povertà di esiliato significa interrompere la continuità dell’universo. Aprire l’immanenza senza ordinarvisi.
E’ la sfida del povero al potere, l’opposizione sempre perdente e allo stesso tempo vittoriosa dell’umile, del povero, della condizione sociale di assoluta inferiorità contro la forza, la superbia, la prepotenza. Nel novembre del 2002 esce per l’editore Einaudi un libro di Alberto Asor Rosa “La guerra”. Il libro contiene considerazioni sulla superiorità dell’impero americano sulle altre parti della terra. Sono delle riflessioni nate dalla dichiarazione della guerra infinita del presidente Bush al terrorismo, dopo l’assalto alle due torri dell’11 settembre. Asor Rosa si sofferma ad analizzare questo dominio assoluto dell’impero americano sul mondo, basato sullo strapotere delle armi senza possibilità di essere superato da qualunque altra potenza. Eppure questo ordine deve essere cambiato. E con quale forza? Vengono al pensiero dello scrittore delle idee molto simili a quelle citate sopra: l’ultima linea di resistenza è quella del pensiero e della voce, perché non c’è voce senza pensiero… Questo di oggi è uno di quei momenti tremendi in cui il confronto e lo scontro non avverranno soprattutto, nonostante le apparenze, sul terreno dei mezzi militari e delle prove di forza materiali ma del possesso e della manipolazione della parola… Penso a qualcosa di più lento e di più sotterraneo, a una specie di processo osmotico che valica frontiere e supera steccati senza che quasi nessuno se ne accorga prima che sia avvenuto, a una sorta di penetrazione delle parole attraverso le barriere del fuoco e dell’acciaio da cui siamo ormai tutti circondati e imprigionati e che ci dividono al nostro interno gli uni dagli altri, in diverso modo e misura, ormai stranieri in patria. Lavorare sulla parola e per la parola è il compito che ci sta davanti.
Non sentite con me in questo brano l’eco delle parole di Levinas? E possiamo trarne una prima conseguenza, che c’è una parola che attende di essere assunta e rimessa nel soffio dello Spirito per essere vitale e sfidare il potere delle armi che insieme è potere del denaro. Si sente dire spesso: che può fare uno di noi contro lo strapotere dell’impero? La prima cosa da fare è avere fede nella superiorità e l’invincibilità della parola, che interrompe la continuità dell’universo. Sono parole di fuoco. Devo interrompere la scrittura e mettermi in piedi perché queste parole non consentono altra risposta se non eccomi.
Il mondo ha urgente bisogno di Gesù di Nazareth; questa non è una declamazione oratoria ma il risultato di una esperienza e di una paziente ricerca. E il compito di noi credenti è quello di rispondere a questa urgente richiesta. Riprendo Asor Rosa: ciò di cui abbiamo bisogno, sopra il clamore assordante del conflitto, il quale tutto cancella e rende sordi anche i meglio disposti, è che torni a risuonare e a farsi udire una modesta voce umana… La voce dell’uomo comune in qualcosa si distingue. Non urla e non predica, non ingiuria e non pretende: si limita a presumere, le basta dire. E con tono quieto quasi sommesso dice (come capita alla sapienza degli uomini comuni di tutti i tempi e di tutte le razze) quello che già tutti conoscono come giusto e accettabile, e, solo che lo si voglia, possibile. – Non contenderà, né griderà, né alcuno udirà nelle piazze la sua voce. Egli non spezzerà la canna incrinata e non spegnerà il lucignolo che fuma, finché non abbia fatto trionfare la giustizia. E nel suo nome le genti spereranno (Is 42,3 – Mt 12,18-21). Dunque l’uomo sarebbe Lui, e più esplicitamente Asor Rosa allude a questo bisogno: riflettiamo sull’enigmatica definizione che Daniele dava del profeta chiamandolo Figlio dell’uomo, definizione che Matteo riprendeva senza ulteriori specificazioni per il Cristo (Mt 24,30). Perché filius hominis? In un contesto in cui si aspetterebbe il più ovvio filius dei. Perché, se si guarda alla radicalità dei processi che la comparsa del profeta mette in atto nella visione stessa della storia umana, si può arrivare a concepire che il profeta è dunque Cristo, è figlio di Dio solo in quanto è figlio dell’uomo, mentre non ha nessun senso, neanche teologico sostenere che è figlio dell’uomo in quanto è figlio di Dio… filius hominis, la misteriosa definizione che attinge il suo significato alla natura stessa della sua fragile ma inflessibile carne di uomo, ha continuato a circonfonderlo, evitandogli sia la profanazione dei miserabili, sia le deificazioni dei sacerdoti.
Chi crede nella divinità di Gesù – e io mi professo di quel numero – se veramente ama il suo Maestro deve prima di tutto prendere atto di questo inarrestabile cambio di cultura che può trovare tematizzata, e fatta sistema filosofico, in Emmanuel Levinas e prima di lui in Husserl e Heidegger. Una presentazione di Gesù uomo in tutte le sue dimensioni e spogliato totalmente della sua divinità come nell’opera del francese Renan l’eco della quale si spense solo nel tempo della mia giovinezza, e insieme la biografia di Giovanni Papini sono assolutamente impensabili oggi perché l’uomo della post-modernità non ha più la possibilità di pensare nel modello dell’essere. Nella esigenza che Asor Rosa esprime nel libro che sto citando, e nel precedente Fuori dall’occidente non c’è né l’affermazione, né la negazione della divinità di Gesù, perché il desiderio e l’invocazione della sua presenza sono collocati fuori della categoria dell’essere: sarebbe ora che qualcuno lo staccasse di lì (dalla croce) per rimetterlo sulla sua terra e curargli le piaghe. Ciò di cui abbiamo bisogno è di questo semplice gesto umano – un gesto di gratificazione e insieme di risarcimento.
Non si chiede ai discepoli di negare la divinità né di proclamarla a gran voce, né di vietare ai non credenti che esprimano il bisogno che il Maestro rimetta i piedi nella sua terra. Anche Giovanni Papini chiudeva il suo libro con una invocazione al Cristo di tornare fra noi; ma un lettore sentiva molto retorica questa invocazione, e più oggi di ieri. Chi segue l’evoluzione del pensiero umano e guarda al futuro del cristianesimo e ad una nuova evangelizzazione e ad una nuova inculturazione, due novità proclamate con insistenza in un certo tempo da Giovanni Paolo II costituiscono un progetto possibile solo rimettendo il Cristo sulla sua terra, tenendo presente che per il suo riapparire può mettere nuovi processi nella storia umana. Non aveva indicato questo il Concilio Vaticano II affermando che il centro della predicazione di Gesù è il regno di Dio? Ma lo spirito del concilio poteva essere accolto solo con una rinunzia a secoli di riflessione teologica innestata sulla filosofia dell’essere. La teologia della liberazione offriva un saggio che questa svolta è possibile senza intaccare il credo cattolico. Evidentemente questo credo dovrà necessariamente subire delle semplificazioni distinguendo le verità essenziali da quelle secondarie. Tutto questo è faticoso; ma la vera fatica dell’uomo, quella a cui non può sottrarsi, non è di permettere alla verità di entrare progressivamente nell’umanità per liberarla? Un processo che non è indolore; ma che è quello che Gesù ha messo nella storia e che può attualizzarsi nella storia solo attraverso la persona liberata. Dio non agisce nell’umanità se non attraverso di noi; è risaputo ma generalmente non accettato. Per cui la voce dello Spirito che si è espressa nel concilio oggi rimbalza dalle pietre del tempio su quelli che stanno fuori, e il compito di noi credenti è di farci portavoce, accettando il dolore e la pazienza dell’attesa, perché tutto oggi ci convince che non viene accolta. E’ molto bello pensare che il tempo non richiede a noi che vogliamo con tutta l’umiltà, includerci fra gli amici, non dobbiamo affilare le armi per quelle battaglie apologetiche che si spensero nel pontificato di Benedetto XV (e questo è incontestabile merito del suo breve pontificato) ma dobbiamo attualizzare nel mondo questo qualcosa di più lento e sotterraneo. Le parole spogliate di tutti gli spigoli e da ogni segno di arroganza saranno le sole capaci di trapassare le barriere del fuoco e dell’acciaio. La posizione di questa generazione di cattolici non è certamente più facile di quella degli apologeti, dei legionari del fondamentalismo, ma certamente più evangelica, più veramente cristiana. Ma come? Lascio i lettori di Ore undici davanti a questa domanda. Ma voi non dovete attendere la mia risposta, cominciate a pensarci: la posta in gioco non è piccola né poco importante. Si tratta di preparare le strade al Cristo schiodandolo dalla croce. Nessuno può curare le sue piaghe. Come il rabbino lo ha incontrato alle porte di Roma, egli sa come fasciare le sue piaghe, ma è pronto ad alzarsi e a camminare se noi ci dichiariamo pronti a seguirlo. E apriremo un’epoca messianica.