Relazione tenuta al convegno invernale di Oreundici tenutosi a Cattolica dal 2 al 6 gennaio 2010
“Amare e lasciarsi amare”
Nella relazione precedente Roberto Mancini ha delineato un compito molto impegnativo. Io dovrei indicare qualche atteggiamento da sviluppare per realizzarlo, ma anche per evitare facili illusioni.
Faccio una breve introduzione che vale sia per la relazione di oggi, che ha come titolo ‘Affidarsi all’Amore’, sia per la riflessione di domani a cui hanno messo il titolo ‘Amarsi amando’. L’introduzione, che costituisce la prima parte del mio intervento, riguarda la condizione temporale in cui noi ci troviamo come creature. Affidarsi all’Amore vorrebbe dire, nell’intento di chi ha fissato il tema, affidarsi a Dio. La riflessione quindi concerne la scoperta di Dio come amore. Ma prima di riflettere sull’atteggiamento concreto dell’affidamento, credo opportuno analizzare la condizione in cui ci troviamo come creature, condizione segnata dal tempo.
Il tempo
I greci avevano tre termini per indicare il tempo: aion, kronos e kairòs. Aion, era il tempo divino, spesso concepito come il grande fiume che circondava la terra o anche come il serpente che si mangia la coda; delimita tutta la realtà. Il cronos indicava il tempo della successione degli eventi, segnato dal destino di morte; era il tempo attraversato da paure con elementi precari ed offerte illusorie. Il kairòs, infine era il tempo opportuno, sempre concepito all’interno di un orizzonte statico. Oggi per noi il kairòs è l’offerta di una continua novità.
Il secolo scorso da un capo all’altro è stato attraversato da riflessioni sul tempo, da parte dei fisici (pensate alla relatività di Einstein 1905 ristretta e 1915 generale, o alla meccanica quantistica) da parte degli psichiatri e psicologi (cito Minkowski), o da parte dei filosofi (basti ricordare L’essere e il tempo di Martin Heidegger).
Essere tempo perciò non trovarsi in una situazione neutra e stabile perché implica un cambiamento continuo. Già Roberto Mancini ha sottolineato che amare vuol dire cambiare. La ragione sta appunto nel fatto che noi siamo tempo: non possiamo presumere di essere già quello che dobbiamo essere: lo stiamo ora diventando; non possiamo presumere di avere già le qualità che ci sono necessarie per vivere: le dobbiamo ancora acquisire. Siamo in processo, in movimento.
Il tempo spesso noi lo concepiamo come un qualcosa di neutro, come uno spazio vuoto che possiamo riempire a piacimento. Questo è un modo errato e, in ogni caso, non sufficiente per capire e vivere la condizione di creature in processo. Nella visione statica, caratteristica dei secoli scorsi, quando si pensava che tutta la realtà fosse già fissata nella sua natura o essenza, il divenire era una decisione da prendere, non uno stato da vivere. Era un impegno morale, occorreva fare qualcosa. Nella prospettiva dinamica, invece, il divenire è la nostra condizione di esistenza, noi non siamo ma diventiamo e il tempo è l’ambito di una particolare offerta di esistenza. Possiamo accogliere o rifiutare l’offerta, ma non possiamo rifiutare la condizione del divenire.
Ciò che è chiesto oggi a noi non era chiesto alle generazioni precedenti, proprio perché noi siamo perfezione frammentaria, in processo, ogni generazione ha delle esigenze particolari e la capacità di amore oggi richiesta, ha una profondità e un’estensione che secoli fa non era pensabile e non era possibile. Oggi ancora non è possibile, lo deve diventare. La nostra riflessione, quindi, tende alla acquisizione di una perfezione che non abbiamo ancora acquisita.
Permettete subito una conclusione immediata: quando si parla della natura, delle leggi di natura ci si riferisce al passato, a quello che abbiamo sperimentato, a quello che l’umanità ha acquisito qualche secolo fa, quando sono state evidenziate e fissate le leggi. Ma nella prospettiva evolutiva, se siamo realmente in processo, se stiamo diventando, voi capite che non si può definire la natura e le sue leggi solo in base al passato. Occorre evidenziare anche ciò che la realtà è destinata a diventare. Questo mette in crisi molte concezioni rigide e fisse della legge naturale. Questo non vuol dire che tutto è lecito, ma che il criterio non può essere desunto in modo assoluto solo dal passato, ma anche da ciò che di nuovo oggi la vita offre ed esige da noi. In questo senso l’analisi delle nostre situazioni, con la formula usata da Gesù, l’analisi dei segni dei tempi – fa parte necessaria non solo dell’operare morale, ma del nostro esistere, del nostro divenire.
Questo dato non è ancora acquisito nella cultura. Dobbiamo renderci conto che la maggioranza di noi, a parte forse le nuove generazioni che già stanno assimilando da piccoli le nuove prospettive, necessariamente deve ogni giorno assumere il modello dinamico, per impostare la propria esistenza. Non possiamo affidarci alle abitudini o agli istinti, perché sono segnati dai primi modelli utilizzati nella fanciullezza, che sono statici. Siamo stati educati a considerare la realtà già definita e consistente, operante secondo leggi assolute, che era necessario apprendere e seguire. Più si risaliva lungo la china del tempo fino alle origini più ci si avvicinava alla verità assoluta. La perfezione era all’inizio. Anche il concetto di natura che deriva da ‘nascere’, fa riferimento all’origine.
Nella prospettiva evolutiva invece, la perfezione sta alla fine. Guardando solo al passato non possiamo individuare in modo adeguato e sufficiente in quale direzione stiamo andando, come dobbiamo vivere il nostro presente che cosa ci è chiesto per rendere possibile il futuro.
Da questo non possiamo dedurre che tutto ci è lecito. Al contrario! Proprio perché diventiamo attraverso le scelte, proprio perché possiamo rifiutare le offerte di vita e non cogliere il dono che ci viene proposto, è necessario essere molto vigilanti sui pensieri, le fantasie, i desideri, i rapporti e le decisioni. Corriamo il rischio di sopravvivere senza diventare noi stessi. Anche sopravvivendo, come Roberto prima giustamente diceva, possiamo non vivere, perché non facciamo altro che ripetere ciò che il passato ci ha consegnato o ciò che abbiamo vissuto. Se siamo tempo ci sono opportunità che dobbiamo riconoscere e accogliere per rendere possibile il futuro.
In questo senso la nostra responsabilità diventa molto più grande e la risposta che essa implica non possiamo trovarla nel passato, o presumere di conoscerla già ma dobbiamo continuamente cercarla.
Il tempo nell’orizzonte della fede in Dio
Dal punto di vista teologico, per quello che riusciamo a capire, il tempo ci distingue da Dio, che diciamo eterno. Ma eterno non vuol dire che esiste in un tempo infinito, perché il concetto di infinito è legato appunto al concetto di tempo e quindi è legato alla nostra modalità di esistenza. ‘Eterno’ vuol dire che Dio è ‘tutto compiutamente’. Per dire qualcosa di Dio partiamo dalla nostra frammentarietà, quindi dicendo che Dio è eterno neghiamo che Egli sia frammentario e gli attribuiamo la totale perfezione, che da parte nostra non possiamo immaginare. Quando diciamo di essere creature, intendiamo affermare la nostra condizione di frammenti in successione. Quindi anche l’atteggiamento dell’affidamento, di cui parleremo, è segnato dal tempo: noi siamo perfezione frammentaria in una successione di situazioni e di esperienze.
Ci chiediamo quindi cosa vuol dire essere tempo nell’orizzonte della fede in Dio. Due convinzioni sono da rilevare. La prima è che esiste già il Bene nella sua pienezza, la Vita nella sua completezza, la Verità senza ombre: “Dio è luce e in Lui non ci sono tenebre” (1 Gv. 1, 5). La seconda che la perfezione che può essere comunicata, ma solo in modo frammentario e successivo. Pensiamo quindi che esiste già la perfezione nella sua totalità e che il tempo è un suo riflesso. Questo è il dato specifico della condizione creaturale secondo la fede. La creatura è dipendenza continua da una perfezione compiuta. Dio non può comunicare totalmente la sua perfezione solo restando in se stesso (la concezione cristiana della Trinità implica una dinamica interna a Dio). Dio è uno solo, perché la totalità non sarebbe compiuta se fosse moltiplicata. Può vivere la perfezione totale in un dinamismo continuo, che però non implica di per sé – almeno così come noi riusciamo a concepirlo – la mutazione legata al tempo. Fuori di sé però Dio può partecipare la sua perfezione ma solo in modo limitato e successivo. compiuto. Certo, i modelli che noi utilizziamo sono sempre condizionati dalla nostra esperienza temporale per cui le parole che noi utilizziamo sono sempre inadeguate, però ci servono almeno per percepire la differenza tra le creature e Dio.
In questo senso la perfezione che ci è continuamente offerta è fondata su una realtà già esistente e diventa quindi un’opportunità perché può introdurre novità, non è la ripetizione costante del già accaduto. La novità è possibile proprio perché il tempo è il riflesso di un’eternità e la perfezione totale si può comunicare a frammenti successivi.
La prima conseguenza è che il tempo, nella prospettiva di fede in Dio, non è uno spazio vuoto che ci è chiesto di riempire, ma è un ambito pieno che ci è chiesto di accogliere. Cioè il tempo non è una dimensione neutra nella quale noi dobbiamo fare qualcosa, bensì è un’opportunità che ci è offerta, che noi possiamo accogliere o rifiutare, utilizzare in un modo o in un altro. Il tempo ci porta contenuti ben precisi, corrispondenti alla nostra età, alla nostra situazione, alla generazione alla quale apparteniamo. Siamo inseriti in un processo che implica coinvolgimento e decisione.
Dal punto di vista
della riflessione di fede, questo ci serve per capire bene la nostra condizione
di creature. Capite allora che in questa prospettiva quelle visioni del tempo
letterariamente a volte molto efficaci e diffuse, pensate per esempio a
Baudelaire, che il tempo era il nemico dell’uomo, e quindi da temere o da
dimenticare, non tenevano conto della opportunità che il tempo contiene. Per il
fatto che dipendiamo continuamente da una perfezione compiuta, noi possiamo
acquisire qualità finora mai emerse, esprimere perfezioni finora mai accolte e
sviluppare qualità inedite.
Tale novità può diventare poi oggetto di esperienza. Per la vita di fede ciò è
importante perché costituisce la verifica della sua verità. Possiamo
sperimentare che assumendo quell’atteggiamento di fiducia cui parleremo, siamo
in grado di far fiorire forme nuove di umanità, fraternità prima mai
realizzata, un amore insospettato. Possiamo far fiorire forme di perdono e di
misericordia che non immaginiamo neppure. Quando ad un certo momento,
affidandoci alla forza della vita, più grande di noi, o all’amore di Dio a cui
crediamo, scopriamo la possibilità di pervenire a una qualità nuova di vita,
allora diciamo: “funziona”, “c’è un fondamento”.
Poi in che cosa consista non possiamo saperlo. Se siamo piccoli frammenti che nella
successione attendono quello che ancora non hanno mai accolto, è chiaro che non
possiamo sapere quale è la perfezione compiuta che costituisce il fondamento e
neppure sappiamo quale sarà il futuro.
E allora il traguardo che ci sta davanti lo possiamo raggiungere, e il compito
che ci è affidato come generazione per trasmettere la vita che dovrà
svilupparsi e assumere nelle future generazioni qualità inedite è realizzabile,
proprio perché, vivendo insieme, possiamo costituire un ambiente vitale, un grembo
fecondo, da cui potranno nascere uomini nuovi.
In questa prospettiva il tempo non è uno spazio neutro, è il grembo dell’azione
di Dio, è l’ambito dove la forza della vita può far fiorire inedite forme di
umanità, far crescere figli di Dio, “i quali non da sangue né da volere di
carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1, 13), a
coloro che appunto hanno accolto “il Verbo della vita”.
E’ proprio questo processo in cui noi siamo inseriti. Man mano che il tempo
passa l’ambito di offerta deve essere più ampio e più profondo, gli orizzonti
si allargano continuamente. Oggi l’orizzonte è planetario, non è escluso che
fra qualche generazione, o fra qualche secolo, o qualche millennio (se
l’umanità non si distrugge) l’ambito di esperienza umana potrà essere più
ampio, se ci sono altre forme di vita intelligente nell’universo. Noi fino a
qualche secolo fa non sapevamo neppure che esistevano gli indios nelle
Americhe, eravamo sulla stessa terra ma non potevamo neppure pensare a una
comunione di vita con loro. L’orizzonte del nostro amore non li poteva
includere. Oggi costituiamo una sola famiglia e abbiamo uno stesso orizzonte di
cammino. Il nostro compito non è solo quello di far fiorire il tipo di amore
oggi necessario perché la storia umana abbia un orizzonte unitario, sia cioè il
cammino di una solo popolo, ma anche quello di rendere possibile il tipo di
amore che domani sarà necessario.
Il possibile male della storia
La consapevolezza di essere tempo impone di riconoscere il ritardo della nostra
generazione in rapporto al compito affidatoci dalla storia. Guardando la
storia, noi vediamo tante circostanze in cui l’umanità ha mostrato ritardi
abissali. Anche la nostra Chiesa: pensate quanto tempo ha richiesto prima di
accettare la libertà religiosa, la necessità del dialogo e per sviluppare
quindi quelle dinamiche di accoglienza, di misericordia, di fraternità che il
Vangelo sollecitava dagli inizi. Fino a qualche secolo fa ancora venivano
eretti dei roghi per gli eretici, si pensava di condannare all’inferno coloro
che pensavano diversamente o che praticavano altre religioni. Il Vangelo già
indicato un traguardo di una fraternità universale e aveva già indicato le vie
per raggiungerlo.
La consapevolezza di essere tempo implica la volontà di accogliere le offerte
che esso contiene, ma sapendo che possiamo rifiutare il dono. Tale rifiuto è la
radice del male storico, cioè del male provocato dagli uomini. Prospettando gli
ideali di un’umanità nuova, di forme inedite di amore, dobbiamo renderci conto
della possibilità di fallire. Possibilità legata al semplice fatto che siamo
tempo che cioè possiamo accogliere la perfezione solo a piccoli frammenti,
nella fedeltà del cammino, ma nella incompiutezza della struttura personale e
sociale. Nella presunzione di essere già arrivati, o di essere autosufficienti
possiamo rifiutare il dono. Riteniamo sufficiente la scienza che possediamo,
l’amore di cui siamo capaci, l’armonia personale a cui le scienze umane possono
condurci e non accogliamo la novità.
Per noi anziani e vecchi questa tentazione è molto più forte che per le nuove
generazioni perché siamo stati educati al modello statico, in cui si conosceva
la natura, in cui si sapeva che la legge naturale indicava certe cose e non
altre, in cui la verità era già posseduta.
Questo modello resta sempre al fondo, questo lo dobbiamo ricordare. Qualcuno
potrebbe obiettare: adesso sappiamo come stanno le cose! Ma i modelli e le
acquisizioni della prima fase della vita sono ancora presenti nelle nostre
sinapsi e in certe situazioni possono ancora emergere e prevalere su quelli
acquisiti successivamente.
Questo accade anche se non siamo malati perché appunto le impronte originarie
del cervello restano nel sottofondo della nostra esistenza anche quando abbiamo
accumulato nuove acquisizioni. Per questo non dobbiamo presumere di avere
acquisito i modelli nuovi in un modo assoluto e definitivo. Dovremmo tenere sul
comodino l’elenco delle conversioni da realizzare ogni giorno, quei cambiamenti
che ci sono assolutamente necessari per il dialogo vero con gli altri e per
accogliere le novità del tempo. In questo senso il cambiamento che ci è chiesto
non lo possiamo realizzare tutto in una volta compiutamente, ma è da riprendere
in mano continuamente, perché il compito è più grande di noi.
Ho parlato finora del male che deriva dalla resistenza nei confronti del tempo,
la resistenza cioè alle offerte che il tempo contiene e continuamente ci
rinnova. Esiste però un male più radicale, che deriva dalla condizione
incompiuta e quindi imperfetta della creatura. Essa infatti in processo, in
divenire e ogni sua attività riflette la sua imperfezione. Il male fisico, il
disordine, la sofferenza, come ombra dell’incompiutezza, accompagnano il
cammino dell’umanità e il processo del cosmo. Questo male non scompare solo
perché il tempo passa, anzi lo sviluppo della perfezione rende più ampio il
possibile spazio del male. Certo, l’uomo, almeno nell’ambito della sua piccola
terra, ha un compito anche nei confronti del disordine e della imperfezione della
natura. Le diverse scienze umane come la medicina, la psicoanalisi, la
sociologia, l’economia hanno raggiunto traguardi importanti nella gestione
delle imperfezioni derivanti di limiti dei processi creati. Altri traguardi li
potranno raggiungere in futuro, se l’umanità non perde la testa e non disperde
con la violenza o la negligenza le enormi potenzialità della cultura e della
natura. Pensate alla dispersione enorme di risorse umane ed economiche nella
costruzione degli armamenti, quando per la ricerca medica, le necessità
alimentari, non si trovano mezzi sufficienti. Disperdiamo quantità enormi di
ricchezze per la produzione di cose che, se utilizzate producono disastri e
morte.
La coscienza umana percepisce con sempre maggiore chiarezza l’insensatezza di
scelte di questo tipo. Le nuove generazioni potranno giungere a decisioni
radicalmente nuove su questo punto. Oggi ancora non sono possibili: riusciamo
appena a intravederle, ma non siamo in grado di realizzarle. Il male non può
essere annullato nell’istante in cui viene riconosciuto, ma solo quando
acquisiamo la possibilità di superarlo. Il male ci accompagna da sempre e
sorgeranno sempre forme nuove, perché le esigenze della aumentano, man mano che
la storia procede. Più le esigenze della vita diventano profonde più il male
diventa grave se le risposte tardano a venire. La condizione temporale non è
neutra, perché la responsabilità cresce con la misura delle risposte da dare..
Più i doni coinvolti nello sviluppo della vita sono grandi, più l’accoglienza
si fa necessaria e più dannose sono le conseguenze del loro rifiuto.
Questa è la condizione drammatica nella quale noi ci troviamo, condizione che
diventa però straordinaria opportunità se, consapevoli, assumiamo un
atteggiamento responsabile.
La risposta positiva è possibile perché noi, credendo in Dio, riteniamo che c’è
una forza più grande, quella che il Concilio nel decreto sule religioni non
cristiane (Nostra Aetate) ha chiamato la “forza arcana” che alimenta il nostro
cammino. Noi credendo in Dio questo crediamo e siamo chiamati ad affidarci.
Abbandonarsi all’Amore
Ed è appunto questo atteggiamento che ora vorrei illustrare brevemente. Lo
chiamiamo abbandono in Dio, fiducia, affidamento. Ho già detto che esso implica
la convinzione che esista una Vita piena, una Verità assoluta, un Bene senza
imperfezioni, un’energia creatrice.
È un punto però da chiarire, perché parlando di forza arcana, si corre il
rischio di pensare a un’energia impersonale che ci avvolge e rende possibile il
nostro sviluppo. Certo per noi che crediamo in Cristo la cosa è molto più
facile, perché in Gesù la forza creatrice si è rivelata come amore gratuito,
radicale e universale. E l’amore suppone la dimensione personale: se il
principio ama e suscita amore è certamente persona. Questa conclusione la
condividono anche molti altri credenti. Quando possiamo sperimentare che
l’azione creatrice, la forza della vita, può far fiorire l’amore in forme
straordinarie, possiamo capire che essa ha un carattere personale. Per noi
cristiani Gesù è icona di Dio, perché Egli è giunto ad una espressione di amore
che ancora appare straordinario. Anche quelli che non riconoscono la
messianicità di Gesù affermano che la sua proposta di amare i nemici e la
testimonianza radicale che ne ha dato contraddice fondamentalmente l’istinto
dell’uomo ed è impraticabile dalla totalità della gente. Questa posizione è
continuamente contraddetta dalla presenza dei santi. quelle persone autentiche
che mostrano la possibilità di pervenire a traguardi nuovi di amore e di
dedizione al bene comune.
Questa è la convinzione di fondo della fede in Dio: esiste già il Bene che
rende possibile l’amore umano anche nelle sue forme nuove e radicalmente
innovatrici. Ma il punto è che non basta questa convinzione perché il cammino
venga compiuto. È necessario che ci siano luoghi, ambiti, comunità, famiglie,
dove i rapporti vengono vissuti in questo orizzonte, così da diffondere nel
mondo modalità nuove di convivenza. È necessario, cioè, che molte persone
vivano insieme nella consapevolezza che una forza più grande può far fiorire
qualità nuove e possano incontrarsi capaci di offrirsi reciprocamente doni di
vita.
Questa convinzione e l’atteggiamento corrispondente suppongono la legge della
incarnazione: che cioè solo creature possono introdurre nella storia modalità
nuove di vita. Molti credenti di fronte alla constatazione del degrado morale
della società, dell’inquinamento fisico e biologico provocato dai comportamenti
umani, affermano: è vero, ma alla fine Dio provvede. Questo modo di ragionare è
errato e corrisponde a un’immagine di Dio insensata. Si è detto più volte in
questi giorni che l’immagine di Dio deve continuamente cambiare, perché deve
corrispondere ai modelli culturali e alle esperienze che gli uomini compiono.
Ora nella prospettiva dinamico-evolutiva che ho cercato di richiamare, l’azione
di Dio non sostituisce mai le creature, perché è un’azione che le alimenta e le
costituisce. Dio crea perché le creature siano e operino secondo la loro
propria natura. Dio non creerebbe se dovesse sempre operare al loro posto. La
perfezione eterna creando si esprime sempre e solo nei limiti della creatura.
Non c’è un amore sulla terra che non sia amore umano, non c’è pensiero che
circola tra gli uomini che non abbia forma umana, non c’è azione che non sia
compiuta da creature. Tutto ciò che esiste è sostenuto dall’azione divina ma ha
una sua propria consistenza, distinta dalla realtà divina.
Se Dio nella creazione e nella storia opera sempre attraverso creature occorre
rivedere il concetto di onnipotenza. Dio può essere detto onnipotente in sé,
perché tutta la perfezione è offerta e accolta nelle relazioni e nelle
dinamiche trinitarie. Ma Dio non è onnipotente nella creazione e nella storia.
Spesso si dice “Dio può tutto”. Se ci riferisce ai processi della creazione e
della storia, questa formula non è esatta. Dio è sempre legato al tempo e
quindi al limite della creatura. In questo senso noi sì, chiamiamo Dio
onnipotente nel Credo, ma Dio è onnipotente in sé, non nella storia, non nelle
creature, perché nelle creature assume la modalità della creatura.
Affidarsi a Dio quindi vuol dire ritenere che la sua azione in noi diventa
nostra capacità di agire, diventa nostro amore. Se non diventasse nostro amore,
l’amore non esisterebbe sulla terra. L’azione divina come tale riguarda le
persone ma non può intessere rapporti fra persone. L’amore di Dio quindi nelle
creature deve diventare amore di creatura per esprimersi e l’amore delle
creature è segnato sempre dal loro limite.
Questa è la legge dell’incarnazione. Gesù, che consideriamo incarnazione di
Dio, non è un essere divino calato sulla terra che ha vissuto una perfezione
divina. È la realtà umana fiorita all’interno di una comunità, il piccolo resto
di Israele, che aprendosi con fiducia all’azione divina ha reso possibile una
rivelazione inedita di Dio. Dal tronco di Jesse, è germinata una nuova umanità.
Attraverso l’amore di coloro hanno fatto crescere Gesù, Dio ha potuto aprire
una varco nuovo alla corrente di vita che nasce dal flusso del processo
trinitario. Per questo amore Gesù “cresceva in sapienza, età e grazia” (Lc 2,
52). Egli è nato che non sapeva parlare, non sapeva amare, non sapeva
camminare, non sapeva pregare. Giuseppe e Maria gli hanno insegnato a pregare,
gli hanno insegnato a leggere le Scritture, gli hanno insegnato ad amare.
L’ambiente in cui è cresciuto – un ambiente ristretto, ma qualitativamente
molto ricco dal punto di vista spirituale – ha reso possibile la crescita di un
uomo che è giunto ad un’espressione estrema di amore. Così ha introdotto una
qualità nuova nella storia umana, ha aperto una strada inedita per il cammino
degli uomini.
Questa avventura continua ancora e l’esperienza di Gesù resta il nostro
riferimento. Non possiamo pensare che Dio possa fare qualcosa al nostro posto.
Noi possiamo affidarci talmente, aprirci così all’azione di Dio in noi, alla
forza della vita, a quell’energia che alimenta la storia, da diventare noi
capaci di esprimere un amore inedito e da far crescer figli di Dio attorno a
noi. È questa possibilità che richiede quell’affidamento totale, quell’apertura
senza riserve di cui stiamo parlando.
Quando ci affidiamo all’Amore intendiamo consentire che l’energia creatrice
diventi in noi azione nuova. Dio non può amare al nostro posto o aggiungere dall’esterno
una qualità nuova alla nostra vita, o far piovere dal cielo una persona
inedita. L’azione creatrice fa crescere l’umanità dal di dentro. È necessario
perciò che vi siano ambiti in cui i rapporti sono vissuti nell’orizzonte
teologale, nella convinzione, cioè che ciascuno possa offrire ad altri una
forza di vita per la crescita definitiva. Posso vivere ogni rapporto nella
consapevolezza che la persona che mi sta dinnanzi con il suo gesto, il suo
pensiero, la sua esperienza attraverso mi offre doni di Vita per crescere.
Anche se la persona è diversa da me, anche se pensa in modo opposto, al limite,
anche se mi odia, posso vivere quella situazione in modo positivo, se mi
affido, cioè se mi apro all’azione di Dio, che anche lì è presente. Non perché Dio
voglia l’odio o il disprezzo, ma perché il suo amore è più forte dell’odio
degli uomini. La sua azione perciò può farmi pervenire doni di vita anche in
una situazione negativa o che io considero tale. Gesù è pervenuto ad un atto
supremo di amore proprio in una situazione di violenza e di odio. Gesù è
pervenuto a una forma radicale di amore perché la situazione di violenza e di
odio esigeva una qualità d’amore, in altre circostanze forse mai richiesta.
Credo si possa dire che il tipo di amore che Gesù ha esercitato sulla croce
prima non l’aveva mai esercitato in quella profondità e in quella misura. Era
una situazione che richiedeva e quindi rendeva possibile una fedeltà all’Amore,
un’accoglienza dell’azione di Dio così profonda e radicale, da esprimersi in
una misericordia straordinariamente efficace.
In questo senso la Croce è simbolo di un affidamento a Dio senza riserve, senza
ipoteche, senza ricatti. Simbolo di gratuità pura. Quando l’amore giunge ad
essere radicalmente gratuito esprime la piena maturità della persona.
Doppiamo però renderci conto che anche nella maturità il nostro cammino resta
segnato dal limite, dalla debolezza e quindi dalla progressività. Non possiamo
illuderci di potere realizzare progetti assoluti. Possiamo indicare qual è il
traguardo verso il quale andiamo, ma consapevoli che i passi possibili sono
passi compiuti nei ritmi del tempo, giorno dopo giorno. Il cammino implica
quindi la fatica quindi di apprendere ad amare ogni giorno, per non venir meno
al compito che ci è stato affidato. Non possiamo dire “ora ci sono, ora so, ora
sono capace”. No, sono sempre in cammino, non posso mai fermarmi, né so quello
che mi sarà chiesto il giorno dopo. Dovrò essere così aperto alla forza della
vita, alla sua azione, da poter ogni giorno rispondere: “Eccomi, io vengo”. E
questa risposta costituirà la struttura della nostra esistenza di creature.
Accoglieremo il tempo e vedremo nella successione dei nostri giorni
quell’opportunità straordinaria che la Vita ci offre, che Dio ci rinnova continuamente:
la possibilità di diventare figli suoi.