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PARLARE O VIVERE D’AMORE

Ritrovare la potenza sonnolenta dell’amore.

Alla televisione austriaca, nel corso della trasmissione di un concerto della Nona Sinfonia di Beethoven, una telecamera un po’ maliziosa vaga lungo le file serrate e mostra i volti. Certi sonnecchiano. Sono gli abbonati alKonzerthaus. Molti conoscono già la Nona Sinfonia e sono venuti per essere rassicurati su se stessi. Nulla è cambiato: a Vienna si esegue ancora la Nona Sinfonia. La cosa mi ricorda la reazione di Durkheim alla domanda: “Perché lei parla così poco di amore?”. “Perché è da moltissimo tempo che se ne parla senza viverlo. Quando se na parla, tutti, rassicurati, si addormentano.” Come non essere degli abbonati assenti, dei sonnolenti dell’amore? Dirò soltanto cose che so e che voi sapete da sempre, ma tenterò di dirle nondimeno per la prima volta. Questo brano tratto da un libro di Christiane Singer (Dove corri? Non sai che il cielo è dentro di te, Servitium 2010) ci aiuta a riprendere la riflessione sull’amore. 
Ripensiamo velocemente al percorso, allo sviluppo o al declino, della capacità di amare dalla nostra infanzia ad oggi. Ripercorriamo le tappe e gli snodi, domandiamoci: dove siamo arrivati oggi? Che cosa ci ha impedito di esprimere liberamente e serenamente tutta la potenza trasformatrice dell’amore per noi, per l’altro, per gli altri? È possibile che questa ricognizione ci porti dolorosamente a ritrovare i meandri in cui ci siamo infilati, nel tentativo di ripetere esperienze infantili che non ci hanno portati lontano da meccanismi involutivi. Il nostro inconscio, più o meno palesemente, tende a farci ripetere vecchie esperienze improduttive se non distruttive. La forza che ci viene dai processi di consapevolezza ci chiede un colpo di reni per riprendere in mano la nostra potenza amorosa “sonnolenta” e renderla capace di partorire dei piccoli grandi capolavori. Ritroviamo il giusto senso e significato dell’amore. “La sofferenza ha bruciato tutto, consumato in me ogni cosa, tranne l’amore”, ci dice un rabbino superstite di un campo della morte. “L’amore è ciò che rimane quando non resta più nulla”, ci ricorda ancora la Singer, nel libro già citato. L’ amore è quella passione profonda, quel “desiderio” di vita, che qualunque sia il buio che ci avvolge, ci sorprende con la sua forza prorompente. Ma l’ amore ha bisogno di un tu per non cadere in idealità difensive così diffuse in certi spiritualismi. Un tu che può essere una persona, un gruppo, un progetto. Sono tante le persone, le situazioni che attendono di essere avvolte di amore fecondo, non egoista, per poter esprimere ricchezze nuove di vita. Questo periodo Pasquale ci offre l’ opportunità di riandare al brano di Maria di Magda al sepolcro. È una pagina suggestiva di amore che vi riporto in tutta la sua bellezza. Questa donna salvata da Gesù da una sua sofferenza mentale (alcuni autori parlano di depressione) o da un problema di prostituzione (altri esegeti portano questa ipotesi), si lega a Gesù con un tenerissimo affetto di gratitudine. Lo seguirà anche nei momenti drammatici della sua morte. Ma l’episodio più suggestivo è quello davanti al sepolcro vuoto. Gesù che la vede in lacrime le domanda: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”, ma lei non lo riconosce. Solo quando la chiama con il suo nome: ”Maria“ la fa uscire dal suo pianto disperato e si fa riconoscere. “Rabbunì!”, che significa “Maestro!” è la risposta della donna (Gv. 20,15-16).

don Mario De Maio

(da “Oreundici” di marzo 2013)