Durante la messa delle ore 11 ricorderemo Letizia Fianchini che ci ha lasciati il 13 agosto u.s.
Civitella San Paolo (Rm)
Letizia Fianchini
IL RICORDO CHE HO
la dolcezza e l’ironia nelle parole e negli occhi
di Cristina Pace
Il ricordo che ho di Letizia è il suo sorriso. mi sembra che il suo sorriso sia in fondo l’unica cosa che so veramente di lei. Il sorriso degli occhi, la dolcezza e il lampo divertito dello sguardo. Quando l’ho conosciuta ero giovane, e mi sembrava tanto più grande di me. So che mi ha aiutato, ma non ricordo tante parole e nemmeno consigli. Sempre un libro in mano, nelle mani sempre più nodose. La
gonna a fiorellini, i giacchetti morbidi, sempre più grandi sul corpo che diventava sempre più piccolo.
I suoi occhi, più bassi man mano che il corpo scendeva, e che ancora si alzavano a guardarti, canzonatori. mi pare di sapere così poco di lei. Gli elementi della sua vita venivano
fuori per cenni, qua e là, nel corso degli anni, degli incontri sempre più radi. episodi della guerra, degli ex alunni, di certe sue colleghe di scuola, della sua famiglia, a cui teneva e che curava molto: «sono il
puntaspilli della famiglia», diceva, sempre con quel guizzo ironico nello sguardo.
La persona di cui l’ho sentita parlare di più, e che non ho mai conosciuto, era Giovanna, la sorella amata, sopportata, protetta. e i nipoti, i pronipoti di milano, di cui mi raccontava letture, catechismo, pensieri.
Conosceva tante persone Letizia: mi diceva tanti nomi, con particolari sul carattere, sulle qualità. A volte si trattava di personaggi che solo dopo capivo che erano noti e importanti nel mondo cattolico, la cui
storia conosceva bene, attraverso libri e persone. Tratto peculiare di Letizia era l’amore per la poesia. montale, che citava a memoria. L’amore per le parole che, in breve, sanno dire tanto, sanno
dire qualcosa di inaspettato. Questo piacere si esprimeva nell’attenzione con cui sceglieva frasi o versi da pubblicare su oreundici, ma emergeva anche nel suo modo di raccontare gli episodi, le persone: i suoi racconti culminavano spesso in una battuta, una frase che diceva tutto. Sia che
fossero le parole di Carlo o di Arturo, magari dette a tavola o durante un viaggio in macchina, sia che fossero – spesso – le parole di un bambino. Parole quotidiane, semplici, buffe, inconsapevolmente sagge, che dette da lei, filtrate da quel sorriso di intesa, diventavano allegria, stupore
divertito, poesia: assumevano un senso più grande.
Mi ricordo che qualche anno fa, quando ormai la malattia mostrava il suo volto più minaccioso e lei mi parlava dello sforzo con cui ogni mattina chiamava a raccolta le forze, prendendosi cura paziente del proprio corpo, mi raccontò divertita di come Arturo, già curvo e centenario,
vedendola avesse esclamato: «Letizia, come ti sei ridotta!»… C’erano tante cose nel modo in cui raccontava l’episodio: il paradosso, la schiettezza di Arturo, la tenerezza con cui lui le comunicava che capiva bene cosa stesse passando, il gusto per la comicità della situazione, l’autoironia
con cui lei stessa guardava sé e i propri sforzi infrangersi davanti alla realtà che con finto candore Arturo osava esprimere a parole… Dolcezza e ironia, difficili da smontare. nelle relazioni, nei gruppi, la
sua capacità di scrutare in profondità persone e situazioni la spingeva a dire la sua, a cogliere anche gli aspetti e le dinamiche meno simpatiche. Anche per questo il suo contributo, per lo più offerto in sordina,
era sempre utile. La potenza di uno sguardo che si posa con attenzione su di te, ti sorride,
ti invita a scherzare insieme, a capire, senza spiegare troppo. Il sorriso di Letizia mi ricorda cosa posso essere io stessa, la forza enorme che sprigiona dalle cose semplici. e il senso di vuoto e di incompiutezza che ti lascia il pensiero di avere preso molto, senza farci caso abbastanza.