4 gennaio 2004
Ci siamo già fermati a riflettere su questo inno alla Sapienza di Dio, o alla Parola di Dio, o al Verbo, come diciamo, il giorno di Natale e poi abbiamo avuto occasione di richiamarlo il primo dell’anno, perché delinea il lungo tragitto dell’azione di Dio, nella creazione prima e nella storia degli uomini. E’ un percorso che sappiamo essere di miliardi di anni, da quando almeno il nostro universo esiste, ed è un percorso che ha consentito alla Parola/azione di Dio di fiorire in forme nuove, di esprimersi in qualità di vita sempre più ricca e complessa, fino a quella perfezione che si esprime nella nostra esistenza, cioè nella specie umana, che è molto recente, rispetto ai molti miliardi di anni della creazione. E in Gesù la Parola di Dio, il Logos eterno, è giunto a esprimersi in una forma umana, ma con promesse di compimenti non ancora realizzati.
Perché è stato necessario tanto tempo ed è necessario altro tempo ancora, per giungere al compimento? La ragione la sappiamo, l’abbiamo anche meditata il primo giorno dell’anno, quindi l’accenno solo per riassumere il cammino di questi giorni. La ragione sta nel fatto che noi siamo tempo, cioè che non abbiamo lo spazio sufficiente per accogliere nella nostra interiorità in un solo istante tutta la perfezione che la Parola creatrice contiene, per cui siamo necessariamente costretti ad accogliere la perfezione che ci viene donata a piccoli frammenti, nella successione di tutte le esperienze che compiamo. Non siamo Dio: questa è prima grande verità che dobbiamo sempre tenere presente. Siamo creature e quindi siamo nel tempo e non possiamo trattenere la perfezione.
Anche quella che ci è stata donata nel passato non la possiamo vivere tutta nell’istante. Se potessimo per esempio esprimere nei gesti attuali, di amore per esempio, tutto l’amore che abbiamo accolto nella nostra vita, quale ricchezza straordinaria avrebbe il gesto che compiamo! E invece dobbiamo costantemente limitare anche la ricchezza che abbiamo ricevuto a un piccolo frammento, a un piccolo dono, legato appunto all’istante che stiamo vivendo. Pensate se potessimo per esempio riassumere in una formula tutte le intuizioni che abbiamo avuto nella nostra piccola storia o le verità che abbiamo appreso, che abbiamo anche vissuto! Ma non riusciamo ad esprimerle in una formula, in un gesto, in un atteggiamento.
Questa esperienza della insufficienza delle nostre espressioni, della nostra esistenza nel tempo, ci fa soffrire. La sentiamo come un limite e a volte la percepiamo come una forma di maledizione: coloro che vivono l’aspetto negativo e vedono solo quello, certo imprecano per questa condizione. Ma in realtà è la benedizione che ci è consentita, l’unica possibilità di vita che abbiamo per giungere a un compimento.
Il compimento non sappiamo in che consista, per cui sentiamo quasi la nostalgia per quello che possiamo essere e non siamo ancora. C’è quindi anche una ragione giusta in questa nostra sofferenza, ma se la cogliamo come il segno di ciò che ci sarà donato, del compimento a cui siamo chiamati, quello che ci ricordava Paolo nella lettera che abbiamo ascoltato nella seconda lettura: “chiamati a diventare figli” (Ef.1,5), ecco, se viviamo anche questa situazione precaria e insufficiente in quella prospettiva, allora siamo in grado di viverla come una benedizione, che è la benedizione di essere viventi. Per questo percepiamo di non essere ancora il tutto, perché siamo viventi, altrimenti non lo percepiremmo neppure. Questa è una grande benedizione.
Ho riassunto un po’ le riflessioni fatte in questi giorni, ma la riflessione che voglio proporvi oggi riguarda l’ultima parte dell’inno che abbiamo ascoltato, quello che inizia con la testimonianza degli apostoli “noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità. Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia al posto di grazia (questa sarebbe la traduzione esatta)”. Ecco, queste ultime strofe ci richiamano un atteggiamento fondamentale che ci è richiesto per continuare il cammino e ci indicano il fondamento e la possibilità del tragitto che siamo chiamati a compiere, ma anche il traguardo che siamo chiamati a raggiungere.
Allora prima di tutto l’atteggiamento. Dice Giovanni: “abbiamo contemplato la sua gloria”. Questo si riferisce alla loro esperienza di apostoli. E’ un termine che nella sua prima lettera Giovanni esplicita in un modo molto chiaro: “Il Verbo della vita che abbiamo toccato, abbiamo ascoltato, abbiamo visto, abbiamo toccato con le nostre mani” (I Gv.1,1). Notate che Giovanni utilizza tutti i verbi dei sensi, tranne quello dell’odorato (ma poi i Padri della Chiesa hanno completato anche questo).
Questa esperienza della gloria di Dio in Gesù è possibile anche a noi. Chiediamoci allora cosa significa quell’esperienza che hanno fatto gli apostoli, perché gli apostoli in realtà hanno incontrato un uomo, un uomo che parlava parole di sapienza, che compiva gesti di misericordia, ma un uomo. Eppure dice che hanno contemplato la gloria di Dio. Certo, ci sono state esperienze straordinarie, ma molto limitate. Pensate per esempio alla trasfigurazione, limitata però a Pietro, Giacomo e Giovanni. Ma anche l’esperienza della trasfigurazione è stata un’esperienza umana, cioè di una perfezione umana che si esprimeva nella preghiera.
Cosa significa ‘gloria’? Il termine greco è ‘doxa’, ma il termine ebraico è ‘kabòd’, che ha una densità maggiore del termine che noi oggi utilizziamo. E’ la manifestazione concreta, sensibile, percepibile dall’uomo, dell’azione di Dio nella storia, in quel caso in Gesù. Per cui Giovanni poteva dire nel suo Vangelo e attribuire queste parole a Gesù, perché esprimono la sua esperienza: “Io non faccio nulla da me stesso, il Padre compie in me le sue opere” (Gv. ).
Questa capacità di cogliere l’azione di Dio nella creatura – perché Gesù era una creatura, come uomo – richiede un particolare atteggiamento, che anche noi possiamo e dobbiamo sviluppare. Possiamo perché man mano che ci esercitiamo nello sguardo di fede, la creatura si disvela. Quello che viene chiamato il velo, cioè la superficie della realtà, si squarcia e oltre appare una luce, appare cioè una realtà più profonda, più densa, che non è mai Dio, ma viene chiamata ‘la gloria di Dio’, cioè la sua manifestazione creata.
Ora questa esperienza dipende certo anche dalle creature che incontriamo – parlo di creature, perché pensate il cielo, pensate la natura, pensate certi luoghi della terra (ognuno può richiamare le proprie esperienze) – ma non è sufficiente la realtà in sé, è necessario lo sguardo di fede. Questo è quello che viene chiamato l’occhio contemplativo, o altri lo chiamano il terzo occhio, o l’occhio interiore. Sono metafore, per cui tutte le metafore possono essere modificabili perché sono convenzionali, ma quello che è importante è cogliere qual è il senso dell’esperienza che possiamo compiere. E che spesso invece trascuriamo, proprio perché non ci educhiamo a guardare oltre. Pensate: Gesù è stato visto da tante persone, anche i sacerdoti l’hanno incontrato, anche Pilato l’ha incontrato, anche Erode l’ha incontrato e Gesù era sempre Gesù. Molti dei suoi contemporanei hanno visto dei gesti straordinari che egli ha compiuto, la sua misericordia nei confronti per esempio dell’adultera o del paralitico che facevano calare dal tetto perché lo guarisse, a cui dice: “ti sono perdonati i tuoi peccati”… Tanti hanno visto i gesti di Gesù, hanno colto il suo sorriso, il suo pianto, ma non tutti hanno contemplato la gloria di Dio in lui, al punto che alcuni hanno deciso di ucciderlo, di condannarlo a morte, altri l’hanno continuamente contraddetto. Eppure Gesù era quel Gesù che per gli apostoli diventava l’ambito della gloria, cioè della contemplazione di Dio, della rivelazione di Dio in chiave umana.
Vedete allora che la contemplazione, cioè il cogliere la gloria di Dio nelle creature, non dipende solo dalla realtà delle creature. Certo, ci sono differenze tra creatura e creatura, ma quello che è più importante è lo sguardo con cui noi incontriamo le creature, cioè l’atteggiamento interiore. Questo è decisivo. Quando c’è l’atteggiamento interiore corretto, noi siamo in grado di cogliere sempre, cioè di fronte a tutte le creature, in tutte le esperienze, la gloria di Dio.
E questa è la benedizione più grande che possiamo augurarci l’un l’altro, perché cambia la vita. Ma la cambia non perché la rende spirituale, divina, cioè ci fa uscire dal mondo. No, la cambia perché la rende autentica, perché la rende vita umana. Questa è la vita umana. Perché se Dio è al fondo della nostra vita, noi siamo in grado di vivere autenticamente solo se cogliamo la sua azione in noi, se contempliamo la sua gloria nelle creature.
Io credo che il rammarico più grande, quando ci sarà dato di avere una piccola luce, almeno nella morte (perché certamente un’esperienza luminosa ci sarà concessa quando giungeremo al compimento), sarà quello di avere vissuto tanti anni senza cogliere la gloria di Dio, senza contemplare la sua luce, senza percepirne la presenza.
Ma la contemplazione della gloria riguarda sempre creature e quindi è sempre limitata ed è sempre inadeguata. Deve condurre ad esperienze sempre più profonde, fino a giungere al punto in cui le creature appaiono ormai inadeguate a cogliere la gloria di Dio, perché si è diventati così sensibili alla presenza di Dio che si anela a coglierla nella sua realtà. Per cui andando avanti lungo il cammino spirituale la luce quasi scompare, nel senso che quelle luci che abbiamo colto ci appaiono inadeguate e insufficienti e aneliamo a incontrare Dio nella sua realtà. E nella vita dei santi appare ad un certo momento questo anelito profondo a incontrare Dio, perché le creature non bastano più, le cose diventano quasi insignificanti.
Questo riguarda alcune esperienze di santi e quindi può darsi che non interessi molti di noi, ma dobbiamo tenerlo presente, perché alcune volte possiamo vivere esperienze di tenebra interiore, di insufficienza, di inadeguatezza che ci potrebbe condurre alla tentazione di fuggire dalle creature o di ripiegarci su noi stessi o di negare Dio. Non dobbiamo cedere a questa tentazione, certi che questo momento è indicativo di una Presenza più grande che ci sollecita per giungere a vederLo, a incontrarLo – non sappiamo cosa vorrà dire – per giungere a diventare figli di Dio in pienezza.
L’ultima breve riflessione riguarda proprio questa pienezza, perché dice l’inno di Giovanni: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la verità e la grazia venne per mezzo di Gesù Cristo”.
Ora il termine ‘grazia’ di per sé anche in greco ha diversi significati: può voler dire l’avvenenza esteriore (noi diciamo che una persona è graziosa, cioè bella) oppure può indicare una specie di armonia profonda. Ma probabilmente qui indica il dono di Dio. Noi lo diciamo anche in italiano, la parola grazia conserva ancora questo significato: il dono che Dio ci fa.
Cosa vuol dire allora che in Gesù abbiamo ricevuto “grazia su grazia”? Di per sé in greco vuol dire ‘un dono al posto di un altro dono’. E lo spiega subito dopo, perché dice che attraverso Mosè abbiamo ricevuto la legge, ma per mezzo di Gesù abbiamo ricevuto la grazia e la verità. Cioè abbiamo ricevuto un dono gratuito per cui giungiamo a traguardi nuovi o abbiamo perfezioni nuove di vita. Questa è la traduzione molto semplice dell’esperienza che i primi cristiani facevano delle possibilità nuove che avevano di vivere fra di loro: una forma di condivisione, una forma di fraternità che prima non avevano mai sperimentato e che riuscivano a vivere proprio accogliendo lo spirito di Gesù, aprendosi all’azione di Dio come Gesù l’aveva rivelato.
Ma cosa vuol dire che in Gesù abbiamo ricevuto la verità? Noi spesso, almeno nell’uso nostro della nostra cultura occidentale degli ultimi secoli, dall’illuminismo in avanti, quando ascoltiamo la parola ‘verità’ pensiamo alle idee, alle conoscenze in senso intellettuale. Anche a proposito della fede diciamo ‘le verità della fede’. In realtà il termine ebraico che soggiace a queste formule vuol dire ‘fedeltà’, ‘autenticità di vita’.
Ecco, potremmo tradurlo così oggi: da Gesù abbiamo ricevuto la possibilità di vivere autenticamente la nostra esistenza, cioè di vivere secondo le leggi della crescita, le leggi dello sviluppo delle persone. Perché essendo creature, non tutto è positivo, ci sono delle leggi che orientano il cammino, che consentono lo sviluppo. Allora ricevere la verità vuol dire accogliere quelle indicazioni che Gesù ha vissuto fedelmente: dalla sua fedeltà noi possiamo cogliere qual è il tragitto che ci conduce alla nostra autenticità di vita.
Questo cosa richiede? Che noi continuamente, leggendo la Scrittura, entrando in sintonia con la sua parola-azione, riferendoci continuamente a Lui – o, come dice la lettera agli Ebrei, “tenendo fisso lo sguardo su di Lui” (Eb.12,2) – consentiamo di lasciarci penetrare così dal suo Spirito, da avere, come dice Paolo, il suo pensiero (I Cor. 2,16): “Noi abbiamo il suo pensiero”. Ma dove il pensiero non è l’idea, è questa verità di vita, per cui ormai cominciamo a percepire che cosa la vita ci chiede per diventare figli di Dio, che cosa ci è necessario, come reagire alle situazioni, come vivere le esperienze, come incontrare i fratelli, come portare i difetti nostri e degli altri, come affrontare la sofferenza, come vivere la gioia, in modo da crescere come figli di Dio, perché questo è il traguardo.
Il fatto allora che Gesù ci ha consegnato la verità non vuol dire che ci ha dato delle idee che dobbiamo poi ripetere continuamente. Questo conduce al fondamentalismo, ma non è questo che Gesù ci ha indicato. Non ha scritto nulla ed è una fortuna proprio perché saremmo caduti nel fondamentalismo: ci ha donato lo Spirito che ci conduce, giorno dopo giorno. Ma cosa richiede da noi questo? La fedeltà, l’autenticità di vita, così da pervenire a questo traguardo che ci sta di fronte, che è la gloria di Dio nella carne umana, il diventare figli suoi.
Chiediamo al Signore di essere in grado oggi di scambiarci doni di vita, consapevoli dell’importanza della grazia che ci è consegnata per i fratelli e che i fratelli ci consegnano. Questa è la grazia, “grazia su grazia”. Qui possiamo tradurre così: una grazia moltiplicata dal numero dei fratelli che incontriamo, dalle possibilità delle esperienze che compiamo lungo il nostro cammino.
Dal Vangelo secondo Giovanni 1, 1-18
In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.