Vai all'archivio : •

IV Domenica del tempo ordinario

Presentazione di Gesù al tempio

Lc. 2, 22-40

Prima di proporre alcune riflessioni sul tema che è stato scelto martedì scorso, ‘la contraddizione e la spada’, voglio solo ricordare che di per sé la legge non imponeva di andare al tempio per il riscatto del primogenito, quindi per la consacrazione e il riconoscimento del dominio di Dio. Luca però considera Gerusalemme come un punto simbolico necessario per capire la vita di Gesù, perché in realtà Gerusalemme è il punto dove i profeti vengono uccisi, il luogo del compimento della missione. Anche Gesù lo ricorderà: “un profeta deve morire a Gerusalemme” (Lc.13,33), quando decide di salire a Gerusalemme e lanciare la sua ultima sfida. Ricordate che il Vangelo di Luca è tutto un racconto del lungo cammino che Gesù compie, nella sua vita pubblica, dalla Galilea a Gerusalemme, dove poi verrà condannato ed ucciso. Porre quindi a Gerusalemme, nel tempio, questa cerimonia iniziale della vita di Gesù, a quaranta giorni dalla sua nascita, per Luca ha un particolare significato simbolico.
D’altra parte questo racconto fa parte dei ‘vangeli dell’infanzia’, i primi due capitoli di Luca e di Matteo, che sapete sono redatti con un particolare genere letterario, che gioca molto sul richiamo degli eventi antichi e sul midrash, quel tipo di meditazione molto cara agli ebrei, che non ricercavano tanto la cronaca degli eventi accaduti, quando utilizzavano il midrash, ma erano preoccupati più del messaggio, del significato, della profezia, della rivelazione che gli eventi contenevano.
Quindi tenete presente questo dato per cogliere il messaggio fondamentale di questa consacrazione di Gesù a Dio che la liturgia di oggi ricorda.. Perché questo in fondo è il significato: Gesù tutta la sua vita l’ha riservata a Dio. Nella vita pubblica appare chiaramente questa dedizione, questo ‘servizio’, come Gesù lo chiamava: il servo come figlio dell’uomo, il servo che porta il peccato del mondo.
Gesù segno di contraddizione.
Ma veniamo adesso al punto scelto martedì sera come tema della nostra preghiera di oggi. E’ il tema proposto da Simeone in quel bel cantico, il ‘Nunc dimittis’, che nella liturgia delle ore recitiamo ogni giorno a compieta, al termine della giornata. E’ un cantico composto con molta probabilità da Luca stesso, perché si vede proprio il suo stile greco: Luca non era un ebreo, era di cultura greca, forse era medico. Dal suo vangelo sembra avesse anche una preparazione letteraria e questa composizione è proprio tipica della sua sensibilità e del suo stile e rende molto bene l’atteggiamento con cui Simeone, questo vecchio che attendeva la salvezza di Israele, la liberazione di Gerusalemme, esprime la sua gratitudine al Signore.
Le parole che dice successivamente sono molto misteriose per un certo verso: cosa vuol dire “questo piccolo è un segno di contraddizione, è venuto per la rovina e la salvezza di molti in Israele. E anche a te una spada trafiggerà l’anima”? Per quale motivo il Messia, il Servo di Dio, colui che è venuto per indicare il cammino che conduce a salvezza, diventa motivo di contraddizione nella sua vita, nella vita di sua madre (il richiamo alla spada) e poi nella storia della Chiesa che è continuata?

Il mistero del male.

Certo, ponendoci così la domanda affrontiamo un mistero più grande, quello del male della nostra storia, del male della nostra vita, del bene sconfitto, non riconosciuto. Quindi è un problema molto ampio, che affonda le sue radici nella condizione imperfetta, incompiuta della creazione e nella nostra condizione di creature. Affonda le radici lì, perché tutto ciò che noi facciamo è segnato dal limite della nostra condizione – perché noi riflettiamo solo un piccolo aspetto della realtà divina, una briciola della perfezione totale – ma soprattutto dalla incompiutezza della nostra esistenza, perché non abbiamo ancora accolto pienamente l’azione di Dio nei nostri confronti, non siamo ancora diventati figli, non possediamo ancora tutto il dono che il Signore ci ha fatto dandoci il nome di figli. Essendo quindi incompiuti, ogni gesto che compiamo, ogni azione, ogni impegno, è segnato dall’insufficienza, dall’inadeguatezza: non c’è nessun amore che non porti qualche elemento di odio, anche l’amore più puro che noi possiamo esercitare ha delle componenti di egoismo, di resistenza, di possessività e così via; nessun atto di giustizia è esente da un certo interesse o da una ricerca almeno di supremazia sugli altri. E così via: se noi esaminiamo le nostre azioni troviamo necessariamente queste componenti, perché siamo incompiuti ancora. E d’altra parte non possiamo pretendere di accogliere il dono di Dio, che è immensamente grande, in una sola circostanza o nella fase iniziale della nostra vita: abbiamo bisogno di tutta l’esistenza, di tutto il lungo cammino dei nostri giorni – e poi neppure questo basta – per accogliere tutto il dono di Dio.
In questa prospettiva comprendiamo perché anche di fronte al bene a volte reagiamo compiendo il male. Comprendiamo perché in una situazione di imperfezione e di ingiustizia un giusto che appare non viene riconosciuto, anzi, viene contraddetto; perché ogni novità che emerge suscita resistenza, perché sconvolge, perché richiede un cambiamento profondo e noi resistiamo a tutto questo. Abbiamo visto anche domenica scorsa questa resistenza al cambiamento e all’accoglienza della novità.

Gesù davanti alle contraddizioni.

Quando Gesù cominciò la sua attività certamente aveva uno slancio, un entusiasmo, si attendeva dei risultati; era venuto e svolgeva la sua missione con dei progetti ben chiari davanti a sé, che aveva maturato nella preghiera, nella riflessione nel deserto, nell’incontro con Giovanni, nel dialogo con i discepoli di Giovanni, alcuni dei quali divennero poi anche suoi discepoli. Aveva quindi iniziato con uno slancio notevole la sua attività. Era sempre attento fin dall’inizio alle ambiguità possibili che suscitavano contraddizione, per cui per esempio non dava eccessiva importanza ai miracoli e a coloro che venivano guariti diceva di non comunicarlo ad altri; quelli che lo proclamavano messia venivano invitati a non dirlo, questo, proprio per l’ambiguità che le attese della gente riguardo al messia contenevano.
Ma poi ben presto suscitò timori, reazioni: da Gerusalemme scribi, farisei e sadducei mandarono fin dagli inizi osservatori, per rendersi conto della fisionomia di quel nuovo movimento che stava sorgendo in Galilea. A Gerusalemme c’era sempre sospetto verso tutti i movimenti religiosi della Galilea, perché avevano sempre un sottofondo di tipo politico (com’era naturale nella cultura ebraica del tempo) e quindi suscitavano i sospetti dei romani; e i sommi sacerdoti e anche il Sinedrio, che nella maggioranza erano collaborazionisti dei romani, cercavano di evitare tutti i contrasti possibili. La predicazione di Gesù quindi suscitò subito reazioni notevoli da parte dei farisei, degli scribi, dei sadducei, dei sommi sacerdoti: la contraddizione nel cuore stesso della società ebraica, per quello che Gesù diceva, per quello che Gesù proponeva. Soprattutto poi sconvolgeva la mentalità del tempo il suo atteggiamento di grande libertà nei confronti della legge, del sabato e il tentativo di interiorizzare – di portare quindi nelle dinamiche dello spirito, dell’interiorità – la fedeltà a Dio e quindi la pratica religiosa.
Comprendiamo quindi la contraddizione: chi non accettava questa proposta si trovava a rifiutare una novità che veniva da Dio. Ed è la rovina per un popolo, quando rifiuta le novità nuove necessarie per il cammino ulteriore. Perché la specie umana è in processo, non è ancora compiuta, per cui deve attendersi necessariamente che ogni generazione introduca novità. Ma non ogni novità viene da Dio, anche il male ha le sue novità, anche l’ingiustizia ha i suoi sotterfugi che presenta come elementi di progresso, di cammino; per cui non è sufficiente che ci sia una novità, perché venga riconosciuta come azione di Dio, come forza della vita che si esprime.
Di qui allora vedete la possibilità di contraddire, di rifiutare, di uccidere i profeti. E così è stato per Gesù. E tutto sarebbe finito se la sua fedeltà a Dio non fosse pervenuta a quell’espressione straordinaria di misericordia e di perdono che rappresentò la croce, nella quale Gesù ha messo in moto una potenza di vita tale, da iniziare una nuova tappa della storia umana, con qualità nuove spirituali, con un dono dello Spirito, come dice Giovanni. Per cui la contraddizione tra questa forza che suscita novità, che introduce la perfezione nuova e il rifiuto che essa suscita è continuata ancora nella storia.

Il riflesso della contraddizione su Maria.

Ma prima di pervenire ai suoi discepoli e alle comunità che hanno continuato il cammino iniziato da Gesù, è la madre che rappresenta un anello di questo passaggio: “una spada trapasserà la tua anima”. Maria ha vissuto questa contraddizione nella sua carne
Come Gesù era il servo, anche la madre viene presentata fin dall’inizio come la serva del Signore: “Ecco, sono la tua schiava, si faccia di me secondo il tuo volere” (Lc.1,38). Che poi è la stessa parola che la lettera agli Ebrei applica a Gesù, quando entra nella storia degli uomini: “Ecco, io vengo, Padre, per compiere il tuo volere” (Eb.10,7). Ma in realtà quando Gesù è entrato nella storia degli uomini non ha pronunciato questa parola, l’ha pronunciata Maria per lui. Cioè Maria, offrendo vita a Gesù, si è posta al servizio di Gesù per la salvezza: “Ecco la serva del Signore”.
E in fondo questo vale anche per tutti noi: sono stati i nostri genitori che per noi hanno assunto questo atteggiamento di servizio a Dio. E noi siamo nati e siamo cresciuti e siamo stati educati per questa forza di vita che ci ha avvolto e che ci ha introdotti nel mistero della vita, per giungere a quel compimento a cui tutti siamo chiamati.
Per cui potremmo dire che in realtà Gesù quella parola della lettera agli Ebrei Gesù l’ha pronunciata nell’orto degli ulivi: “Si compia la tua volontà, non la mia” (Lc.22,43), l’ha pronunciata sulla croce: “Padre, nelle tue mani rimetto la mia vita” (Lc.23,46). Lì Gesù ha pronunciato quella parola. Ma all’inizio della sua vita la madre l’ha pronunciata per lui: “Ecco la schiava del Signore”.
Questo ha implicato il coinvolgimento di Maria in tutta la sua esistenza. Ci sono certo delle madri che abbandonano i figli, che li affidano ad altri o che li uccidono anche, come avviene ogni tanto, ma le madri che vivono questa loro missione si coinvolgono nell’avventura del figlio e lo conducono a prendere le proprie decisioni nella maturità. Anche Maria ha fatto questo: l’ha educato, con Giuseppe, gli ha insegnato a pregare, gli ha insegnato ad amare, a riconoscere Dio nella sua vita, come gli ha insegnato a camminare e a fare tutto il resto.
Ma nell’inizio della vita pubblica di Gesù appare ancora questa contraddizione. Vi ricordo quell’episodio che Marco narra nel suo Vangelo (4,31-35), quando Maria con i parenti, pensando che avesse perso il lume della ragione, che fosse ‘fuori di sé’, come dice Marco, decisero di andare a prenderlo a Cafarnao per riportarlo a casa a Nazareth, perché era pericoloso per lui fare una scelta di questo tipo. E fu allora che Gesù, quando gli annunciarono che c’erano sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle che volevano parlargli, disse: “Ma chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Chi compie la volontà di Dio, questi è per me madre, sorella e fratello” (Mc.3,35). E’ una parola forte questa che Gesù dice. Certamente fu una spada che trafisse Maria quel giorno.
E poi pensate alla croce. Giovanni pone Maria e il discepolo prediletto proprio sotto la croce, per quella consegna di un valore simbolico straordinario: “Ecco tua madre…”Ecco tuo figlio” (Gv.19,26-27). Questa consegna di un destino che continua, di una missione che continua.
Il nostro cammino alla sequela di Gesù.
Ed ora siamo noi attori di questo compito che si svolge nella storia. Sempre però noi cerchiamo di sfuggire questo aspetto della contraddizione, cioè pensiamo di esserne ormai esenti, come se la vita potesse introdurre le sue novità in un modo indolore, senza rifiuti. E’ impossibile questo, non saremmo in una storia di creature, saremmo già in una storia di figli di Dio pervenuti alla perfezione, al compimento. Siamo invece ancora in cammino qui sulla terra e dobbiamo quindi tenere presente questa necessità assoluta. Non è una necessità imposta da Dio, è una necessità che sorge dalla nostra condizione di persone incompiute, imperfette e inadeguate. Se tutti nel mondo fossero già perfetti, tutti introdurrebbero novità nell’amicizia, nella concordia, nella serenità.
In questi giorni siamo tutti nella sofferenza per la possibilità di una guerra che appare insensata a tutti; ma non possiamo presumere di essere così forti nella nostra fedeltà a Dio e nella volontà di pace, da riuscire a realizzare quello che ci sembra essere certamente la volontà di Dio e la giustizia per gli uomini. Non siamo in grado di realizzarlo, pur essendo molti. Questo non significa che non dobbiamo dare il nostro contributo, nella speranza anche di poter riuscire, perché certamente è possibile; ma dobbiamo tenere sempre presente che non tutto il bene, pure possibile, trova accoglienza nella storia e occorre anche accettare i momenti di sconfitta. Sapendo però che sono sempre provvisori in ordine alla salvezza, al crescere come figli di Dio, al raggiungere quella pienezza di vita alla quale siamo chiamati, perché il traguardo è certamente un traguardo di compimento totale e di perfezione senza riserve: non c’è nessuna profezia relativa al compimento della storia umana, riguardo quindi alla pienezza e alla perfezione degli eletti, che implichi sofferenza, dolore e morte. Anzi, nell’Apocalisse è molto chiaro questo traguardo definitivo, ma che implica il lungo cammino della nostra condizione nella storia.
Quando quindi ci troviamo in contraddizione, quando, pur perseguendo il bene, non veniamo riconosciuti, teniamo presente prima di tutto la componente imperfetta, inadeguata, insufficiente della nostra azione e poi la provvisorietà e la funzione che questa situazione può avere se viene vissuta nell’amore e nella fiducia in Dio. Perché a volte è proprio la situazione di contraddizione e di sofferenza che rende possibile un’esplosione di vita maggiore. Non perché la sofferenza in sé sia positiva, ma perché la forza creatrice contiene ricchezze così grandi, che quando trova situazioni di questo tipo riesce ad esplodere in un modo nuovo. Come è successo per Gesù. Forse potremmo dire che la resurrezione è stata possibile proprio per la carica di amore che Gesù ha vissuto in una situazione estrema. Ci sono delle espressioni, anche nella nostra vita, di amore, di dedizione, di servizio che rendono possibile un’esplosione di vita altrimenti irrealizzabile.
Quando viviamo allora anche queste situazioni di incomprensione, di emarginazione, di contraddizione, siamo consapevoli di questa possibilità. Non per la nostra forza, non perché la sofferenza in sé sia positiva, perché resta un male, ma per la potenza dell’amore di Dio che quando viene accolta riesce ad esprimere delle novità inimmaginabili, delle espressioni di vita altrimenti irrealizzabili.

Chiediamo allora al Signore la luce – quella luce di cui parlava Simeone riferendosi a Gesù – che ci è necessaria per vedere oltre la superficie, per cogliere la presenza e l’azione di Dio anche là dove il male sembra prevalere, dove la violenza sembra soffocare il desiderio di pace degli uomini.

Dal Vangelo secondo Luca 2, 22-40

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: “Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore” – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.
Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
“Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele”.
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: “Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”.
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.