Questa pagina del vangelo ha un particolare genere letterario: proviene dal ‘libro dei detti’ di Gesù, una raccolta che i primi cristiani hanno curato degli insegnamenti principali del loro Maestro. C’era infatti nella tradizione ebraica (ed è continuata anche nei secoli successivi) la consuetudine, quando moriva un grande rabbino, uno che aveva fatto scuola e che aveva avuto perciò diversi discepoli, di raccogliere i suoi detti principali. Ci sono ancora nella tradizione ebraica queste raccolte dei detti dei diversi rabbini. Di Gesù nella tradizione ebraica non hanno trasmesso i detti, perché è stato considerato all’epoca un profeta deviante, ragione di divisione nel mondo ebraico. Quindi, benché Gesù sia ebreo e molti ebrei oggi lo riconoscano come espressione della tradizione ebraica, in questa tradizione non sono stati conservati i suoi detti. I suoi primi discepoli, però, gli ebrei cristiani, che erano appunto tutti ebrei, seguendo la consuetudine raccolsero molti suoi detti.
Purtroppo il ‘libro dei detti’ non ci è pervenuto, ma è confluito nei vangeli sinottici, in particolare in Matteo e Luca. Marco probabilmente è stato scritto con un altro intento, quello di narrare gli eventi principali di Gesù, quindi le cose fatte, il cammino compiuto verso Gerusalemme. Anche l’insieme dei racconti è presente nei vangeli di Matteo e Luca, per cui possiamo dire che questi due vangeli sono costituiti dall’unione dei due libretti, quello dei detti e quello dei racconti. Il vangelo di Giovanni invece ha una sua caratteristica particolare.
Gli insegnamenti contenuti in queste pagine non costituiscono quindi un racconto ordinato: sono stati pronunciati in circostanze diverse, quindi non dobbiamo cercare una logica all’interno di questi discorsi. Occorre però individuare qual è il messaggio fondamentale che Gesù intendeva dare, per riviverlo e così entrare pian piano nella sua prospettiva, assimilare la sua spiritualità, cominciare a capire con quali criteri desiderare, pensare, scegliere, vivere i rapporti.
L’insufficiente conoscenza del bene e del male.
Il primo dato fondamentale contenuto in questa pagina riguarda la conoscenza del bene e del male. Non abbiamo dei criteri assoluti. Quando veniamo al mondo non abbiamo la possibilità di giudicare, di vedere che cosa è bene e che cosa è male. Anche i criteri che ci vengono dalla tradizione, per esempio quelli che sono concretizzati nelle leggi, nelle abitudini di comportamento, non sono mai sufficienti, sono indicazioni per cominciare il cammino. Ma man mano che la vita si sviluppa, che l’umanità quindi cresce, le esigenze della vita sono sempre più impegnative e a volte richiedono dei passi notevoli nel modo di vivere i rapporti, di stabilire le strutture della comunione sociale, della fraternità e così via. Di qui deriva quella divergenza che spesso notiamo tra le esigenze della società e le risposte che possiamo dare, che la società stessa, che la scuola, che la Chiesa riescono a dare. Non possiamo pretendere che ci siano già le risposte, dobbiamo farle crescere pian piano all’interno delle esperienze.
Questo è il lavoro fondamentale della purificazione interiore, che parte da questo presupposto: che non abbiamo mai i criteri sufficienti del bene e del male, che cominciamo la vita nell’assoluta necessità di acquisirli e quindi di percorrere un cammino che è lungo e che di fatto non compiremo mai, perché dovremo consegnare alla generazione successiva, perché la vita continui, i criteri acquisiti, quello che saremo riusciti a cogliere del valore della vita e delle sue leggi.
Quindi io credo che il primo dato fondamentale sia la consapevolezza del limite, dell’insufficienza di tutte le nostre conoscenze del bene e del male. Anche le nostre valutazioni sono sempre provvisorie, sono prospettiche, non sono mai assolute. Questo non significa che non siano sufficienti per percorrere un cammino: sono sufficienti, ma provvisorie.
Questa è la consapevolezza iniziale, che è essenziale, perché altrimenti noi confondiamo le nostre valutazioni, il nostro modo di percepire la realtà, con i criteri assoluti del bene e del male, mentre il nostro modo di vedere è il riassunto della nostra piccola storia, è la combinazione che riusciamo a realizzare della tradizione nella quale siamo inseriti, delle esperienze molto limitate e particolari che abbiamo compiuto, di quello che siamo riusciti a capire con la nostra riflessione. Ma è minimo, è un frammento.
Il rapporto con Dio e la conoscenza del bene e del male.
Il secondo dato fondamentale riguarda l’importanza che ha il rapporto con Dio, la preghiera, cioè il mettersi nella lunghezza d’onda della forza della vita, per raggiungere la conoscenza del bene e del male.
Nel libro della Genesi, all’inizio della Bibbia, al capitolo 3, si dice che al centro del giardino (che è un simbolo della condizione ancora infantile dell’umanità che allora stava incominciando ad emergere) c’era l’albero della conoscenza del bene e del male. E’ un racconto di una ricchezza simbolica straordinaria, perché è abbastanza recente, per cui riesce a valorizzare tutte le esperienze che l’umanità ha fatto. Ecco, secondo questo racconto la tentazione cui l’essere umano è esposto è quella di poter acquisire in un istante tutta la conoscenza, di potersene appropriare come si coglie un frutto da un albero. Se riflettiamo un po’ vediamo che è la stessa tentazione di essere Dio. O la tentazione di uscire dal tempo, di non percorrere le tappe progressive dell’acquisizione dei criteri del bene e del male, di pretendere di poter dire in un istante: “ora so”, “ho la parola magica”, “ho il segreto”. Tutte le forme di gnosticismo, o anche di misticismo esoterico, giocano sempre su questa tentazione fondamentale di uscire dal tempo e di possedere il segreto della conoscenza del bene e del male. Ma è un’illusione: la conoscenza del bene e del male matura dal di dentro, attraverso la sintonia con le leggi della vita che fluisce in noi.
Di qui l’importanza del rapporto con Dio, dell’immergerci continuamente nel Tutto che ci avvolge, nella forza di vita che ci attraversa, per coglierne pian piano le esigenze. Il cuore deve diventare trasparente, diceva Gesù, la luce interiore deve risplendere. E questo può avvenire solo quando ci educhiamo a metterci in ascolto del profondo della nostra vita, cioè di quella forza che in noi pian piano emerge; anche se sempre in modo parziale, provvisorio, inadeguato e quindi non ci conduce mai alla chiarezza piena. Anzi, più il cammino procede, più siamo consapevoli delle tenebre che ci avvolgono. Ma è entrando nella tenebra che incontriamo Dio. Ricordavo domenica scorsa quella espressione di Gregorio di Nissa nella ‘Vita di Mosè’: “Entrò nella nube, non vide nulla e incontrò Dio”. E Meister Eckart a proposito di Paolo dice: “Alzatosi da terra non vide nulla. Nulla era Dio”: cioè sperimentò in un modo nuovo la presenza di Dio nella sua vita e capovolse i suoi criteri di valutazione, così che quelli che prima erano oggetto della sua persecuzione diventarono i suoi fratelli. Ma questo non avvenne in un istante: Paolo stette tre anni in Arabia a riflettere nel deserto, a ripensare tutta la sua vita.
Non sono mai improvvise queste cose. Improvvisi avvengono i capovolgimenti, ma quando tutto diventa tenebra e non si vede più nulla, quello che prima si credeva essere la verità scompare e comincia a delinearsi all’orizzonte un nuovo cammino. Ma è un cammino lungo, perché richiede una trasformazione della propria esistenza e questa non avviene in un istante.
Libertà e responsabilità.
Oggi la nostra società, compiendo un passo avanti notevole, è giunta a delle strutture di maggiore libertà, ma non sempre è cresciuta quella consapevolezza della responsabilità che abbiamo nei confronti di noi stessi e degli altri che deve accompagnare ogni cammino di libertà. La vita non è offerta se non attraverso doni reciproci, che debbono essere offerti e accolti. Ma se nessuno li offre come possono essere accolti i doni di vita? Quindi in ogni società che cammina verso nuove forme di libertà, di democrazia, di dialogo, ci vogliono dimensioni nuove spirituali e non possono essere improvvisate. Non si può neppure pretendere che siamo noi a inventarle: dobbiamo consentire alla vita di esprimersi in noi e quindi dobbiamo avere un atteggiamento di accoglienza, di ascolto, di riflessione su quello che viviamo. E’ questo che spesso dimentichiamo. La nostra cultura ci porta a pensare anche che le soluzioni ai problemi possano essere tecniche, che siano sufficienti strumenti che possiamo acquisire, anche delle scienze umane o di altro tipo. E’ necessaria invece una crescita spirituale. Gesù diceva ‘il cuore’, perché di lì vengono le ricchezze della vita, l’interiorità dell’uomo.
Ecco, ci raccogliamo ogni settimana a pregare appunto perché non possiamo in un giorno staccare il frutto dall’albero della conoscenza del bene e del male così che resti per sempre, dobbiamo essere continuamente in atteggiamento di accoglienza. Quando trascuriamo questo aspetto, quando non abbiamo momenti di preghiera, qualcosa nella vita si appesantisce, certe sensibilità – quelle che i Padri chiamavano ‘sensi interiori’ – si attutiscono, si hanno proprio processi di involuzione, per cui quello che uno prima percepiva non lo percepisce più. E invece la vita man mano che procede richiede una maggiore sensibilità, una maggiore capacità di cogliere il bene, perché la responsabilità diventa più grande e dobbiamo imparare a portare il male degli altri: dei piccoli, degli adolescenti, dei giovani, di coloro che non possono ancora esprimere il bene compiutamente nella misura umana. Sono gli adulti che devono portare il male degli altri, quindi devono essere capaci di riconoscere l’insufficienza, di esprimere misericordia e compassione. E invece spesso noi adulti diamo giudizi di condanna e di disprezzo, oppure troviamo tanti alibi per non coinvolgerci: la colpa è del demonio o degli spacciatori di droga o della mafia o della Chiesa…
Noi abbiamo una missione, perché la vita per realizzare i suoi compiti si serve precisamente delle persone che (senza alcun merito) hanno avuto maggiori possibilità – per tradizione, per educazione, per casualità. Ma se invece queste persone si chiudono in se stesse e seguono solo i propri interessi qualcosa viene meno a tutti, la società stessa si rovina.
Il criterio dei frutti.
I frutti rivelano l’albero, diceva Gesù. I nostri atteggiamenti interiori, i nostri desideri, quelle valutazioni interiori di disprezzo, di superiorità che non riveliamo a nessuno ma che ci portiamo dentro, rivelano il cuore cattivo che abbiamo. Il riconoscerlo è per noi la salvezza, perché una volta che lo riconosciamo non identifichiamo più le nostre conoscenze con la Verità, la piccola luce che è un’illusione con la Luce che invece guida il nostro cammino.
Chiediamo al Signore oggi questa chiarezza interiore, questa trasparenza che è tipica delle persone che pregano. Noi siamo indietro, ma possiamo anche noi arrivare ad essere riflesso di quella luce che un giorno Gesù ha consegnato ai suoi e che lungo il cammino di questi duemila anni è stata spesso nascosta, confusa, deviata, inquinata; ma che può risplendere ancora, perché Dio è fedele e la sua azione può assumere, dovunque trova fedeltà, forme inedite e straordinarie, anche miracolose.
Chiediamo allora al Signore nella liturgia di oggi di percorrere questo cammino di interiorità, per raggiungere quella trasparenza che consenta alla sua azione di diventare dono per tutti i nostri fratelli.
Dal Vangelo secondo Luca (6,39-45)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:”Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”.