Il maestro zen è stato scrittore e poeta. Candidato da Martin Luther King al Nobel per la Pace, visse in esilio a causa della guerra nel suo paese, il Vietnam.
di Alessia Maccaferri in ilsole24ore.com del 21.01.2022
Un fruscio leggero e un monaco minuto, nella sua tunica marrone, passa a fianco. Cammina passo dopo passo, come una danza lunare. Solo quando sale i tre gradini del palco si intuisce che è lui il maestro Thich Nhat Hanh. Per due ore parla in modo pacato, chiaro ed efficace, senza perdere il filo, rendendo semplici i più complessi del dharma, gli insegnamenti buddisti. Il monaco zen, candidato al Nobel per la Pace e ritenuto il padre della mindfulness, è morto a 95 anni in Vietnam.
Più e oltre le parole, colpiva del maestro il modo in cui portava l’insegnamento nel mondo. Lo portava con la sua forza di uomo mite ma determinato, attivista, che con un breve incontro convinse Martin Luther King a schierarsi pubblicamente contro la guerra in Vietnam. Lo portava con la sua testimonianza: a 88 anni, quando l’ho incontrato, si alzava, invitava la platea a fare qualche piegamento sulle gambe e poi, sotto il sole cocente di luglio, guidava una lunga meditazione camminata, tenendo i bambini per mano. Lo portava soprattutto con la sua presenza, quello stato in cui mente e corpo sono una cosa sola e siamo pienamente concentrati in ogni atto.
Fondatore della minfulness
Lui per primo ha divulgato questa attitudine in occidente chiamandola mindfulness, consapevolezza, e lo ha fatto con la semplicità dello zen: quando mangi mangia, quando cammini cammina, quando mediti medita. Senza lasciare che la mente divaghi nei ricordi del passato o nelle aspettative del futuro. Come si fa? “Bastano tre respiri”, diceva Thay (“Maestro”, così lo chiamano gli allievi) accennando un sorriso, che aveva in sé l’arguzia zen e la fiducia nella pratica. Pratica che non è solo la meditazione formale sul cuscino, ma pratica in ogni momento. A Plum Village, il centro immerso nei girasoli della campagna francese fondato nel 1982, ogni 10 -15 minuti suona una campana e un’intera comunità di laici e monaci si ferma – immobile – per tre respiri: il tempo si dilata, Radio Non Stop Thinking – così lui chiamava ironicamente il continuo brusio della mente – si placa un po’ e la mente si risveglia al momento presente, portando pace.
Una vita in esilio
Thich Nhat Han è stato in esilio una vita, dopo che nel 1966 il governo vietnamita gli ha impedito di fare ritorno nel paese d’origine, a causa delle sue posizioni pacifiste: non si schierò con nessuna delle parti in conflitto e attraverso il movimento “Piccoli corpi di pace “ giunse nelle campagne per creare scuole, ospedali e per ricostruire i villaggi bombardati, nonostante subissero attacchi da entrambi i contendenti (vietcong e americani), poiché li ritenevano alleati del proprio nemico. Solo nel 2005, dopo 39 anni di esilio, ha potuto far ritorno per tre mesi in Vietnam.
Il bddismo impegnato
Thich Nhat Hanh è il fondatore di quello che lui stesso ha definito Buddismo impegnato, un buddismo che vuole essere di supporto alla pace, alla giustizia, alla lotta al riscaldamento globale. Ma il suo approccio non fu mai ideologico, lui partiva sempre dall’interno, dall’uomo. Un giorno un ragazzo gli disse che voleva battersi assolutamente per i diritti umani e gli chiese consiglio su come muoversi. Il maestro fece i suoi usuali tre respiri e chiese: “Come vanno le cose a casa, coi tuoi genitori?”. Il suo invito era sempre quello di tornare a se, fermarsi, guardare in profondità, prendersi cura dei semi negativi, guarendoli e prendersi cura dei semi positivi, innaffiandoli. In ogni caso anche di fronte ai drammi dell’umanità lo sguardo era sempre rivolto a ciò che ciascuno porta nel mondo. Cionondimeno subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle la sua presa di posizione gli fece guadagnare il soprannome di “l’altro Dalai Lama”, e il 12 settembre 2001 lo vide radunare 3mila persone a Manhattan, nella Riverside Church.
Scrittore e poeta
È stato autore di centinaia di libri di mindfulness (tra i tanti “La pace è ogni passo”, Respira! Sei vivo”, pubblicati da Astrolabio, “Spegni il fuoco della rabbia” edito da Mondadori ), di commentari a testi buddhisti, di poesie. In realtà Thich Nhat Hanh impartiva insegnamenti in ogni momento. Come solo i grandi maestri possono, incarnava l’armonia di pensiero, parola, azione, anche dopo l’ictus che lo colpì nel novembre 2014 e che lo rese afasico. Ha continuato a portare la sua testimonianza nel mondo con il sorriso sulle labbra. Ha visto gli aspetti più crudeli dell’essere umano, dal Vietnam ai boat people. Ha vissuto la tortura e l’esilio. Eppure ha sempre avuto un’incrollabile fiducia nell’umanità, fiducia nella capacità umana della compassione che, nel buddismo, è sinonimo di comprensione e amore.
La morte come continuazione
Qualche anno fa Thay tenne un ritiro sul vivere e il morire. Per 21 giorni parlò incessantemente della vita. L’ultimo giorno disse davanti al pubblico in attesa: «Ma ora vi chiederete: cosa succede quando moriamo? Devo darvi una buona notizia: non moriamo!». E spiegò che abbiamo paura della morte perché spesso pensiamo che una volta morti diventeremo il nulla. In realtà non solo Buddha ma anche la scienza moderna ci insegna – sosteneva il maestro vietnamita – che nulla si crea, nulla si perde e che tutto si trasforma. Di sicuro quello che resta tra noi percepibile e palpabile – aggiungeva – è ciò che lasciamo è il nostro esempio, le nostre azioni (karma). Lui non parlava mai di morte ma di continuazione. Nel suo libro “La pace è a ogni passo” scrisse: «Ho chiesto alla foglia se aveva paura dell’autunno, di veder cadere le sue compagne. E la risposta è stata: “No. Per tutta la primavera e l’estate ho vissuto pienamente. Ho fatto del mio meglio per nutrire l’albero, e adesso una gran parte di me è lì. Questa forma non mi racchiude interamente. Io sono anche l’albero, e una volta tornata alla terra continuerò a nutrirlo. Perciò non mi preoccupo. Quando lascerò questo ramo, volteggiando nell’aria lo saluterò e gli dirò: Arrivederci a presto».