di Gino Strazzanti in “La strada della malanotte” maggio/giugno 2022
Ho sentito parlare la prima volta di teologia evolutiva quando ho ascoltato Don Carlo Molari (scomparso il 19 febbraio scorso) a un convegno dell’associazione Oreundici. Molari è stato uno dei più importanti teologi italiani; con lui, sulla scia di Theillard De Chardin, ha preso corpo e definizione la ‘teologia evolutiva’. Le basi per l’interesse della teologia verso un’ottica evolutiva erano state poste dal Concilio Vaticano II: “[…] Così il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell’ordine delle cose, a una concezione più dinamica ed evolutiva. Ciò favorisce il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimola ad analisi e a sintesi nuove.” (Gaudium e Spes, 5). E lui è stato il principale e più importante teologo che ha dedicato la sua vita a queste ‘analisi e sintesi nuove’.
Io ho avuto modo di conoscerlo, ascoltarlo e parlargli, frequentando i convegni e incontri organizzati dall’associazione Oreundici a cui lui era molto legato.
Sin dalla prima conferenza a cui ho assistito, il pensiero di don Carlo mi è apparso originale, chiaro, lucido e perfettamente in linea con quello che era il mio sentire.
Uno dei concetti chiave della sua teologia evolutiva era che “l’uomo non è in grado di accogliere fin dall’inizio la pienezza di vita offerta, ma lo può fare solo a frammenti, nello svolgersi del tempo.”
In un’ottica di processo, quindi, la necessità di sviluppare la nostra dimensione spirituale e di accogliere l’azione creatrice di Dio che sempre, gratuitamente, accompagna il nostro cammino con frammenti di perfezione, cioè con nuovi doni di amore, intelligenza, giustizia, misericordia, fraternità.
Nell’ottica evolutiva del suo pensiero trova senso anche l’annoso problema del male: “La radice del male – scriveva don Carlo – sta nella condizione incompiuta della creatura che, essendo in processo, non può accogliere tutta la perfezione in un istante e procede tra limiti e insufficienze verso un compimento. Anche il peccato originale e tutte le scelte negative successive della storia, si radicano in questa incompiutezza. La storia, quindi, è l’ambito dove la forza creatrice, in se stessa positiva e amorevole, sta sollevando l’umanità dal nulla originario alla perfezione compiuta. Tale azione opera dal di dentro, sicché diventa perfezione dinamica della creatura, attraverso tappe successive.
Il male come incompiutezza e imperfezione sarà eliminato solo alla fine. La sua presenza nella storia, perciò non contraddice la bontà di Dio: Egli, infatti, sta sollevando la creatura alla perfezione compiuta, avvolgendola d’amore e di misericordia. Né contraddice la sua onnipotenza, che si dispiega nel tempo e quindi solo al termine può essere valutata in tutta la sua portata.
Lungo la storia l’amore creatore può dispiegarsi solo nella successione di un divenire, superando il caos dell’imperfezione e il disordine delle cause imperfette attraverso le quali l’azione divina si dispiega. Quando il processo è visto nella sua totalità, la benevolenza e la potenza di Dio possono essere colte e affermate simultaneamente, esse guidano la creatura al termine, dove potranno esprimersi compiutamente anche in forma creata.
L’amore creatore continua nel tempo e cresce secondo le ampliate capacità di accoglienza da parte delle creature. La misericordia divina è la forza che solleva dal male e conduce l’umanità dal nulla originario al suo compimento: quando «Dio sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,28)”.
Questa visione apre nuovi orizzonti di speranza e di vita e ci fa comprendere in modo nuovo il nostro ruolo e la nostra missione: “Dio non impone, ma offre e sollecita la libertà e il coinvolgimento delle creature. Dio ci offre continuamente delle possibilità. Noi creature possiamo accogliere queste offerte sempre nuove e realizzarle nella storia; non siamo noi la fonte delle nostre azioni, è Dio il fondamento della nostra libertà. Colui che sollecita le nostre decisioni e le nostre azioni…
…Ogni giorno dobbiamo chiederci che cosa di nuovo la vita mi chiede di esprimere, che finora non mi è stato possibile; col passare del tempo non ci è chiesto di diventare più forti fisicamente, ma di diventare maggiormente rivelatori dell’azione di Dio…“.
In questa visione anche la preghiera assume nuovi significati: “Pregare non significa dichiarare a Dio quello che deve fare o sollecitarlo a fare qualcosa che non sta facendo. Pregare è l’espressione del nostro bisogno profondo di diventare capaci di realizzare ciò che la vita ci chiede. Dio offre alle creature di operare, non opera mai al posto delle creature. Perché le creature diventino operanti è necessario che le creature siano consapevoli di questa energia creatrice che offre possibilità e che richiede accoglienza. La preghiera è precisamente l’esercizio di quest’accoglienza. È un allenarci per interiorizzare quella forza creatrice che ci rende possibile operare in un modo nuovo. Pregando ci apriamo al Suo amore così da essere capaci oggi di fare un passo avanti nella rivelazione del Suo amore nella nostra esistenza quotidiana e nel nostro cammino.”
Don Carlo riteneva necessario abbandonare vecchi schemi ed immagini di Dio che ormai sono diventati ostacoli alla comprensione, accoglienza ed apertura a cui la vita ci chiama in modo sempre nuovo. Nel 2017 scriveva “Non credo nel Dio che opera nella creazione e nella storia intervenendo, modificando le situazioni, completando le creature, rimettendo in funzione i meccanismi della creazione e della storia quando si inceppano. L’azione di Dio è un’azione creatrice che offre possibilità, che alimenta il processo, ma che non si sostituisce mai alle creature, proprio perché fa esistere ed operare le creature. […] Dio è provvidente non nel senso che risolve tutti i problemi, ma nel senso che, ovunque l’uomo si venga a trovare, il suo amore è tale che può condurlo al suo compimento. Dio non può risolvere alcun problema storico se non ci sono creature che, aprendosi alla sua azione, indicano e realizzano la soluzione. Il “dio tappabuchi” non può essere il Dio della fede”.
A volte ci capita di identificare la nostra fede con le immagini di Dio che abbiamo introitato nella nostra vita e il processo di abbandono di queste immagini e di vecchi schemi ci dà l’impressione che stiamo perdendo la fede (è successo anche a me). A rincuorarci in questo processo ricordo una sua definizione della fede che custodisco con cura: “La fede è un tendere e un tenere viva la richiesta di senso in una ricerca che coinvolge noi stessi, gli altri, la vita e Dio”.