di Rémi Brague in “La Croix” del 21 aprile 2020 (trad.: www.finesettimana.org)
Il filosofo Rémi Brague ci invita all’esame di coscienza. E, al di là della pandemia del Covid-19, pone la domanda: «Non ci sono epidemie intellettuali, morali, spirituali, certo più discrete, ma più deleterie sul lungo termine?».
Sono, come tutti, confinato nella mia casa da quindici giorni. Ho la grande fortuna di esserlo in un tranquillo appartamento parigino. Ho anche la fortuna ancora più grande di essere in compagnia di due delle sei donne della mia vita, mia moglie e mia madre, mentre le altre quattro, cioè mia figlia e le mie nipoti, sono disperse tra Madrid, Mâcon e Francoforte. Passiamo molto tempo al telefono o su Skype, con parenti e amici. Riceviamo su WhatsApp dei video riguardanti gli studi e i giochi dei nipoti. E naturalmente ci sono anche le incombenze domestiche e gli acquisti a tenerci occupati e ad allontanare la noia.
A parte questo, che cosa fare nelle ore libere? Da buon intellettuale, un po’ snob, avrei potuto rileggere o – siamo onesti – leggere alcuni dei grandi scrittori della peste, Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, De Foe, Manzoni, Camus, Giono. Ho preferito approfittare dell’occasione per dedicarmi alla redazione di libri miei, che sicuramente non saranno all’altezza dei loro. Solo che ho promesso, e sono già in ritardo. Così, fin dal risveglio, e ancora in vestaglia, mi metto al computer, e rispondo alla domanda: che cosa pensare di questa epidemia?
Per me, in quanto cristiano, che quindi non fa come se Dio non esistesse, quale può essere il posto di Dio in questa storia? L’epidemia sarebbe un castigo? Certi fondamentalisti americani lo avevano già suggerito ai tempi dell’aids. Riprendono servizio in questo momento. Dei musulmani barbuti li seguono sulla stessa strada. A me non basta una spiegazione simile. Battere su un gong gridando: “È il castigo!”, lasciamolo a Philippulus [ndr.: il “profeta” delle storie di Tintin]. Un dio che ridacchia nella sua barba: “Ecco, così imparano!”, il dio di Panizza che manda il vaiolo, quel dio lì non è quello dei cristiani, il quale accetta di morire in croce per la salvezza delle sue creature.
Pensiamo piuttosto alla logica interna delle nostre pratiche. Ce ne sono di quelle che aprono ad un “di più” di vita; altre, per dirla senza giri di parole, portano alla morte, a breve o lungo termine.
Infatti la provvidenza veglia sui vivi, non agendo al loro posto, ma dando loro di che raggiungere, loro stessi, quello che è il loro bene. Gli animali ricevono l’istinto di nutrirsi, di riprodursi, di evitare i pericoli. Per noi, esseri umani, la provvidenza prende un aspetto particolare. L’istinto cede il posto all’intelligenza, all’uso razionale della libertà. La provvidenza diventa, con un gioco di parole che l’etimologia latina conferma, e che era del resto già presente nei Romani, prudenza. Non solo la prudenza di chi guarda bene prima di attraversare la strada, ma piuttosto quella saggezza pratica che sceglie i mezzi migliori per ottenere una fine buona, la phronesis di Aristotele, a cui il mio buon maestro Pierre Aubenque, scomparso alla fine di febbraio, aveva dedicato il meglio dei suoi libri.
Ho citato prima le grandi opere letterarie, soprattutto romanzesche, che hanno per argomento integrale o parziale, oppure come cornice narrativa, una epidemia. Tuttavia, il racconto di una epidemia, che mi sembra quello più significativo per ciò che ci succede, non è la descrizione clinica di una malattia reale e la cronaca della sua evoluzione, ma una semplice metafora. È il sogno di Raskolnikov nell’epilogo di Delitto e castigo di Dostoevskij (1867). Lo studente divenuto assassino per orgoglio è in prigione, in via di redenzione. Una forte febbre gli fa vedere in un incubo una peste inedita. L’originalità della malattia immaginaria di cui racconta i risultati, e allo sesso tempo ciò che la rende così pericolosa, risiede nella natura dei microbi, delle specie di trichinelle: sono intelligenti e avvelenano l’anima degli uomini più che infettare i loro corpi. Tutti coloro che sono colpiti, e cioè la quasi totalità dell’umanità, uniscono una totale demenza ad una incrollabile convinzione di essere nel vero, e perfino di essere i soli a possedere la verità. Non c’è modo di unirsi per un’opera comune. Ne derivano conflitti sanguinosi. Da tale infezione, sarebbe risparmiata solo una piccola élite, degli eletti destinati a produrre una nuova razza e una nuova vita, in una terra rigenerata e pulita – ma quelle persone, aggiunge ironicamente il protagonista, o il romanziere, nessuno li ha visti né sentiti.
Questo assomiglia molto alla nostra situazione di oggi: un individualismo forsennato, un rifiuto di credere che ci possa essere un bene comune, che ci possa essere un gioco nel quale vincano entrambi i contendenti, e invece la convinzione che si debba assolutamente battere, o distruggere, colui i cui interessi non coincidono con i nostri o che, semplicemente, non ha lo stesso nostro parere. Guardate il modo in cui vengono rinviate le accuse: la colpa è dei Cinesi, dice Trump. E Xi comincia a lanciare la sua verità ufficiale: sono gli europei che ci hanno infettati. Guardate anche il modo in cui i partiti si dividono, i gruppuscoli che si dilaniano dall’interno. E, soprattutto, guardate il modo in cui si getta la responsabilità su… beh, su tutti: sul governo attuale, sui governi precedenti, sulla globalizzazione, l’incuria di questo, l’imprevidenza di quello, ecc., per non parlare dei complotti sempre facili da smascherare. Cosa che trovo abbietta. Un’élite di introvabili salvati e salvatori che non ha paralleli nella nostra attualità! Credersi chiamati a far ripartire l’umanità da zero, dopo che qualche catastrofe abbia ripulito la Terra dei cattivi, bel programma. Ma i cattivi, sono sempre gli altri.
Per me questa pandemia è invece l’occasione di un esame di coscienza, individuale, come cittadino e come professore universitario, ma anche un esame di coscienza collettivo, sia come parte della corporazione dei filosofi da cui il fatto di essere in pensione non mi ha escluso, sia come beneficiario di questa civiltà che, partita dall’Europa, ha conquistato buona parte del mondo. Mi chiedo dunque: l’epidemia di Covid-19 è l’epidemia più grave? Non ci sono forse epidemie intellettuali, morali, spirituali, certo più discrete, ma più deleterie a lungo termine? Non tutte vengono dall’Oriente. La maggior parte ha per epicentro l’Occidente, se non addirittura la Francia.
Ho fatto tutto ciò che bisognava fare per attenuarne gli effetti?
Francamente, non ho scoperto granché che già non sapessi, o, comunque, che pensavo di sapere.
Questo confinamento mi ha impedito di partire per Madrid, e da lì per la costa est degli Stati Uniti, dove dovevo passare dieci giorni a tenere delle conferenze. Mi sento da un lato frustrato per non aver potuto onorare i miei impegni, e sollevato, anche solo per il fatto di aver potuto, così, festeggiare con Françoise i nostri cinquant’anni di matrimonio. “Perché alla fine, tutto questo è opera della Provvidenza. È lei che sistema tutto, la paghiamo per questo!”, dico a petto in fuori.
Benissimo. Ma chissà come reagirei se fossi colpito nel mio corpo, o nel corpo dei miei cari? È la domanda che Satana pone a Dio a proposito di Giobbe, che, però, non è caduto. Per quanto mi riguarda, tutto porta a credere che non sarei così presuntuoso (vanesio, fatuo, pretenzioso).
Finché tutto va bene, giocare a mettersi nelle mani del Padre… non fa mai male. Io sono chiuso nella mia biblioteca, con persone che amo e che vanno meravigliosamente d’accordo tra loro. Ma penso a coloro che vivono soli in una stanzetta, come uno dei miei ex studenti, o in una casa di riposo come la mia madrina: i suoi pasti vengono depositati davanti alla sua porta da un incaricato che poi se ne va. In confronto alla loro sorte, la mia solitudine è comoda e predicare la necessità di abbandonarsi alla volontà divina non mi costa affatto. Ma, come san Pietro, in purgatorio, dice a Dante, che ha recitato il Credo alla perfezione: la tua è moneta sonante, ma ce l’hai in borsa?
«Assai bene è trascorsa d’esta moneta già la lega e ’l peso; ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa».
(Paradiso, Canto XXIV, vv. 83-85 – Pietro riconosce che il poeta dimostra di conoscere il valore della fede, ma gli chiede di dichiarare di esserne in possesso)