di Enzo Bianchi in “la Repubblica” del 20 aprile 2020
Sono ormai trascorsi oltre quaranta giorni di “vita altra” per la maggior parte di noi: una vita in casa, ore da trascorrere in pochi metri quadrati e, per molti, di solitudine.
Abbiamo dovuto inventarci “cosa fare”. Molte sono state le modalità per tentare di sfuggire alla noia e occupare il tempo e lo spazio in cui siamo costretti. Stare davanti alla tv, navigare per ore sul web, esercitarci in cucina per rallegrarci con piatti non quotidiani, impegnarci in lavori di pulizia o riordino della casa… Ormai siamo assaliti dalla febbre della ripresa, tutti pronti a ricominciare a lavorare e a tornare, pur lentamente, alla vita di prima.
Dimenticheremo presto la sensazione che abbiamo acquisito come consapevolezza e abbiamo magari ripetuto a noi stessi e agli altri. Sensazione ben espressa da Mariangela Gualtieri, con una poesia che rimarrà come il canto del gallo nell’ora della presa di coscienza e di un possibile pentimento: «Questo ti voglio dire: ci dovevamo fermare. Lo sapevamo.
Lo sentivamo tutti ch’era troppo furioso il nostro fare».
Fermarsi, dimorare, restare nella quiete: è importante anche “fare niente”! So che è difficile tessere l’elogio del fare niente nella nostra società, eppure prendersi del tempo per fare niente non è un vizio, non è l’ozio che si nutre di pigrizia, accidia e mancanza di vigore. No, è tempo dedicato con precisa intenzione e volontà al fare niente. La tradizione spirituale monastica lo sa bene: Nihil laboriosius quam non laborare, “Nulla è più faticoso del non lavorare”. C’è un fare niente che è una situazione feconda: attitudine che la filosofia ha sempre investigato, dagli antichi greci, a Cicerone, Seneca, Agostino, fino a Bertrand Russell.
“Fare niente” significa metterci in silenzio e solitudine, anzitutto per prendere coscienza dell’esercizio dei nostri sensi e delle loro connessioni con quanto ci circonda.
La nostra mente allora si ribella con i suoi mille pensieri, ma occorre avere pazienza e persistere nel fare nulla, in silenzio e solitudine. Poco a poco si fa largo in noi una certa quiete, si spegne l’ansia, cominciamo a sentire che abitiamo un corpo, che dal profondo giungono altre voci; anzi, scopriamo che “non c’è creatura senza voce”. Si vedono le cose in modo diverso, si diventa contemplativi, nel senso che si guardano persone e cose con un altro occhio, che spesso dimentichiamo di avere.
Questa non è passività né evasione dall’impegno ma è la condizione per assumere con responsabilità il rinnovato impegno. All’aria aperta, immersi nella natura che sta rifiorendo, su un balcone, o nella penombra di una stanza, questo fare niente è sempre possibile. Si afferma abitualmente che questa attitudine aiuta ad habitare secum, ad abitare con sé, ma l’esperienza m’insegna che ciò aiuta soprattutto a tessere relazioni vere con gli altri e con il mondo. Fare niente porta al quieto e gratuito pensare, ad aguzzare l’intelligenza, a esercitare il discernimento. Paul Celan profetizzava: «È tempo che sia tempo». È tempo per fare niente.