La “cattiva compagnia” che segue Gesù.
Nel vangelo di Luca, sono emblematiche, tra le altre, le parabole del capitolo 15, nelle quali l’evangelista presenta un contesto molto simile a quello nel quale Gesù raccontava. C’erano dei peccatori e dei dazieri, che sono i pubblicani, che stavano attorno a Gesù ad ascoltarlo. Era dunque un auditorio poco raccomandabile: i dazieri infatti erano coloro che riscuotevano le tasse e poi le versavano al potere romano “facendo la cresta”, devolvendo molto meno di quello che avevano raccolto, e per questo erano disprezzati e ritenuti dei furfanti, dei ladri. Era composta da queste categorie di persone la “cattiva compagnia” che stava attenta a Gesù, provocando il mormorio astioso dei farisei e degli scribi che dicevano: «costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Allora Gesù, per rispondere a queste critiche astiose, racconta una parabola che ha per protagonista un pastore. Fin dalle prime battute Gesù coinvolge gli ascoltatori: «C’è forse tra di voi uno che, avendo cento pecore, se gli capita di perderne una, non lascia le novantanove nel deserto (dove crescono delle pianticelle che le pecore possono brucare) e va in cerca di quella che si è perduta, fino a che non l’abbia trovata?». Gesù chiede l’approvazione degli ascoltatori al comportamento di questo pastore e quelli rispondono: «il pastore ha fatto bene perché la pecora era smarrita, e ogni pastore è legato alle sue pecore». Poi, prosegue la parabola, il pastore dopo averla trovata, se la mette sulle spalle pieno di gioia: prima l’impegno nella ricerca, poi la gioia del ritrovamento. Rientrato a casa, chiama a sé gli amici e i vicini perché partecipino alla sua gioia; cioè non vuole gioire da solo, vuole condividere la sua gioia con gli amici. Qui finisce il racconto della parabola. Luca aggiunge una conclusione, che attribuisce a Gesù: «Vi dico – questo è Luca che lo dice – che allo stesso modo ci sarà più gioia nel cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione». Queste sono parole di Luca e non di Gesù, per diversi motivi: in primo luogo è Luca ad avere un grosso interesse per il tema della conversione, che invece è praticamente assente in Gesù; inoltre questa conclusione contrasta con il racconto che ha per protagonista il pastore che va in cerca della pecora perduta, e non la pecora che ritorna all’ovile, come vorrebbe il tema della conversione.
L’amore non aspetta, prende l’iniziativa
Ma fermiamoci al racconto della parabola: dietro a questo racconto sta chiaramente un’immagine di Dio. Gesù si difende dalle critiche presentando l’immagine di Dio che è in lui e che lui stesso agisce nei suoi comportamenti. I peccatori e i dazieri sono rappresentati dalla pecora perduta; i sacerdoti e gli scribi criticano Gesù non perché i peccatori non possono essere accolti ma perché lui li accoglie senza che abbiano compiuto la conversione ebrea. Se Gesù avesse detto: «Se voi peccatori vi pentite dei vostri peccati e offrite un sacrificio al tempio per ottenere il perdono di Dio, se restituite il mal tolto che avete rubato, sarete riaccolti», avrebbe proposto la stessa immagine di Dio dei suoi critici. Un Dio che è pronto a perdonare, ma come risposta all’iniziativa del peccatore che si pente e si converte. Invece attraverso la parabola di Gesù appare una diversa immagine di Dio: Dio va alla ricerca, l’iniziativa è sua. Non sta ad aspettare che la pecora ritorni, va lui a cercarla; e la sua è una ricerca efficace, che non demorde finché non ha trovato la pecora e l’ha presa sulle spalle. È dunque un’iniziativa di grazia, Dio riprende la pecora che era perduta e la rimette nel recinto, al sicuro. Ma perché il pastore va alla ricerca della pecora? Forse perché quella pecora è preziosissima? Se calcolate il valore di novantanove pecore contro quello di una, trovate un dislivello enorme. Il vangelo apocrifo di Tommaso, un vangelo molto antico contenente la raccolta di 114 detti, dà una spiegazione: dice che era la pecora più grassa, cioè che il pastore ha agito per un calcolo di interesse; era la pecora migliore del gregge, valeva dieci delle altre e il pastore non poteva subire una perdita così grande. Ancora una volta basta questo piccolo inserimento – “era la pecora più grassa” – perché la storia prenda tutto un altro senso. Ma la conclusione di Gesù è un’al- 17 tra: «Venite, facciamo festa perché ho ritrovato la pecora perduta». Questo pastore ha agito perché non sopporta che anche una sola pecora, magari la più piccola, la più disgraziata, vada perduta. Questa parabola dice un Dio che non sta semplicemente pronto ad accogliere colui che ritorna pentito, ma un Dio che va lui stesso alla ricerca e gioisce del ritrovamento, un Dio dall’accoglienza incondizionata. Gesù ci ha consegnato l’immagine straordinaria di un Dio che non sta fermo ad aspettare, ma va a cercare quello che si è perduto perché non sopporta che sia perduto. Con questa parabola, bella e semplice, con un unico personaggio che è il pastore, Gesù non lascia spazio all’incertezza nella valutazione degli ascoltatori e li obbliga a prendere posizione, rispondendo a ciò che hanno ascoltato.
(Da una delle “lezioni” che Giuseppe Barbaglio tenne nella sede dell’Associazione Ore undici nel 2003, durante le quali presentò le “immagini calde” di Dio nell’esperienza e nella predicazione di Gesù. I testi sono la rielaborazione delle registrazioni – domenica 26 marzo, alle ore 17.30, nella Cripta di Santa Lucia del Gonfalone (Roma), sarà celebrata l’eucarestia, in ricordo di Giuseppe Barbaglio, a 10 anni dalla sua morte )