Francesco ai seminaristi del Pontificio Seminario regionale marchigiano Pio XI di Ancona: «Leggete i grandi umanisti come Dostoevskij, un prete se non è umano non serve. Il clericalismo è una perversione del sacerdozio. I rigidi mancano di umanità»
da famigliacristiana.it – 11.06.2021
Pubblichiamo il testo integrale del discorso di papa Francesco alla comunità del Pontificio Seminario regionale marchigiano Pio XI di Ancona ricevuta in udienza in Vaticano giovedì, 10 giugno.
Cari fratelli,
sono lieto di accogliere la vostra comunità del Pontificio Seminario Regionale Marchigiano “Pio XI”. Ringrazio il Rettore per le sue parole di saluto: entusiasta, questo Rettore! Il nostro incontro avviene nell’ anno dedicato a San Giuseppe e ciò mi porta a condividere alcuni pensieri sulla vocazione ispirati da «questa straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi» (Lett. Ap. Patris corde, 8 dicembre 2020) e vicina anche alla chiamata che Dio ha voluto rivolgerci.
Mi piace immaginare il Seminario come la famiglia di Nazaret, nella quale Gesù è stato accolto, custodito e formato in vista della missione affidatagli dal Padre. Il Figlio di Dio ha accettato di lasciarsi amare e guidare da genitori umani, Maria e Giuseppe, insegnando a ciascuno di noi che senza docilità nessuno può crescere e maturare. Vorrei sottolineare questo, perché non si parla tanto della docilità. Essere docili è un dono che dobbiamo chiedere; la docilità è una virtù non solo da acquistare, ma da ricevere. È importante che ognuno di voi si domandi sempre: “Sono docile? Sono ribelle, o non mi importa nulla, faccio come mi importa?”. No: docile è un atteggiamento costruttivo della propria vocazione e anche della propria personalità. Senza docilità, nessuno può crescere e maturare. Infatti, la Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis afferma che il prete è un discepolo continuamente in cammino sulle orme del Maestro e, perciò, la sua formazione è un processo in evoluzione, iniziato in famiglia, proseguito in parrocchia, consolidatosi in Seminario e che dura per tutta la vita.
La figura di San Giuseppe è il modello più bello al quale i vostri formatori sono chiamati a ispirarsi nel custodire e prendersi cura della vostra vocazione. A loro, quindi, intendo anzitutto rivolgermi. Cari fratelli della Conferenza Episcopale Marchigiana, primi responsabili della formazione di questi giovani; caro rettore, direttore spirituale e formatori tutti, siate per i vostri seminaristi ciò che Giuseppe è stato per Gesù!
Essi possano apprendere più dalla vostra vita che dalle vostre parole, come avvenne nella casa di Nazaret, dove Gesù si formò alla scuola del “coraggio creativo” di Giuseppe. Imparino la docilità dalla vostra obbedienza; la laboriosità dalla vostra dedizione; la generosità verso i poveri dalla testimonianza della vostra sobrietà e disponibilità; la paternità grazie al vostro affetto vivo e casto.
«Accanto all’ appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’ indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’ amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici» (Lett. Ap. Patris corde).
E ora, cari seminaristi, desidero rivolgermi a voi, a cui la Chiesa chiede di seguire l’ esempio di Gesù che si lascia docilmente educare da Giuseppe. Egli, fin da ragazzo, ha dovuto sperimentare la fatica che comporta ogni cammino di crescita, porsi le grandi domande della vita, iniziare ad assumersi le sue responsabilità e a prendere le proprie decisioni. Ma Lui era Dio, non aveva bisogno, no: Lui ha imparato, ma sul serio ha imparato, non ha fatto finta di imparare: no, ha imparato. Era Dio, sì, ma era vero uomo: ha fatto tutte le tappe di crescita di un uomo. Forse non abbiamo riflettuto abbastanza sul giovane Gesù, impegnato a discernere la propria vocazione, ad ascoltare e a confidarsi con Maria e Giuseppe, a dialogare con il Padre per capire la sua missione.
Anche per voi il Seminario sia come la casa di Nazaret, nella quale il Figlio di Dio ha appreso dai genitori l’umanità e la vicinanza. Non accontentatevi di essere abili nell’ uso dei social e dei media per comunicare. Solo trasformati dalla Parola di Dio potrete comunicare parole di vita. Il mondo è assetato di sacerdoti in grado di comunicare la bontà del Signore a chi ha sperimentato il peccato e il fallimento, di preti esperti in umanità, di pastori disposti a condividere le gioie e le fatiche dei fratelli, di uomini che si lasciano segnare dal grido di chi soffre. Attingete l’ umanità di Gesù dal Vangelo e dal Tabernacolo, ricercatela nelle vite dei santi e di tanti eroi della carità, pensate all’ esempio genuino di chi vi ha trasmesso la fede, ai vostri nonni, ai vostri genitori. Già Paolo lo diceva al suo amato discepolo Timoteo: “Ricordati di tua mamma e tua nonna, delle tue radici”.
E leggete anche quegli scrittori che hanno saputo guardare dentro all’ animo umano; penso ad esempio a Dostoevskij, che nelle misere vicende del dolore terrestre ha saputo svelare la bellezza dell’ amore che salva. Ma qualcuno di voi potrà dire: ma che cosa c’ entra Dostoevskij, qui? Questi sono per i letterati! No, no: è per crescere in umanità. Leggete i grandi umanisti. Un sacerdote può essere molto disciplinato, può essere capace di spiegare bene la teologia, anche la filosofia e tante cose. Ma se non è umano, non serve. Che vada fuori, a fare il professore. Ma se non è umano non può essere sacerdote: gli manca qualcosa. Gli manca la lingua? No, può parlare. Gli manca il cuore; esperti in umanità!
Il Seminario, dunque, non deve allontanarvi dalla realtà, dai pericoli e tanto meno dagli altri ma, al contrario, farvi diventare più prossimi a Dio e ai fratelli. Tra le mura del Seminario dilatate i confini del cuore – il cuore dilatato –, estendeteli a tutto il mondo, appassionatevi di ciò che “avvicina”, appassionatevi di ciò che avvicina, che “apre”, che “fa incontrare”. Diffidate delle esperienze che portano a sterili intimismi, degli “spiritualismi appaganti”, che sembrano dare consolazione e invece portano a chiusure e rigidità. E qui mi fermo un po’ . La rigidità, è un po’ di moda, oggi; e la rigidità è una delle manifestazioni del clericalismo.
Il clericalismo è una perversione del sacerdozio: è una perversione. E la rigidità è una delle manifestazioni. Quando io trovo un seminarista o un giovane sacerdote rigido, dico “a questo succede qualcosa di brutto dentro”. Dietro ogni rigidità c’ è un problema grave, perché la rigidità manca di umanità.
“Quelli che hanno la faccia della Beata Imelda e dentro sono un disastro”
Vorrei infine suggerirvi alcuni spunti relativi alle quattro dimensioni della formazione: umana, spirituale, intellettuale e pastorale. E queste quattro dimensioni vanno insieme, e una attua sull’ altra: dimensione umana, dimensione spirituale, dimensione intellettuale e pastorale.
Anzitutto, non prendete le distanze dalla vostra umanità, non lasciate fuori dalla porta del Seminario la complessità del vostro mondo interiore, dei vostri sentimenti e dell’ affettività: non lasciarli fuori; non chiudetevi in voi stessi quando vivete un momento di crisi o di debolezza: è proprio dell’ umanità parlarne. Apritevi in tutta sincerità ai vostri formatori, lottando contro ogni forma di falsità interiore. Quelli che hanno la faccia della Beata Imelda e dentro sono un disastro: no, questa è falsità interiore. Non fare l’ angioletto, no. Coltivate relazioni pulite, gioiose, liberanti umane, piene, capaci di amicizia, capaci di sentimenti, capaci di fecondità.
Dimensione spirituale, la Spiritualità: la preghiera non sia ritualismo – i rigidi finiscono nel ritualismo, sempre; la preghiera sia occasione di incontro personale con Dio. E se tu ti arrabbi con Dio, fallo: perché arrabbiarsi con il papà è un modo di comunicare amore. Non avere paura: Lui capisce quel linguaggio, è padre – incontro personale con Dio, di dialogo e confidenza con Lui. Vigilate perché non accada che la liturgia e la preghiera comunitaria diventino celebrazione di noi stessi. Una volta sono andato a comprare le camicie – quando ancora potevo uscire adesso no – in un negozio di abbigliamento ecclesiastico. C’ era un giovane, seminarista o sacerdote, che andava cercando dei vestiti. Io lo guardavo: si guardava allo specchio. E mi è venuta questa frase: questo sta celebrando se stesso, e lo stesso farà davanti all’ altare. Per favore, che ogni celebrazione liturgica non sia una celebrazione di noi stessi. Arricchite la preghiera di volti, sentitevi già da ora intercessori per il mondo.
Lo studio – la terza dimensione – vi aiuti a entrare con consapevolezza e competenza nella complessità della cultura e del pensiero contemporaneo, a non averne paura, a non esserne ostili. Non avere paura. “Ma, padre, stiamo vivendo un tempo segnato da un pensiero ateistico” – Ma, tu devi capirlo, devi dialogare e devi proclamare la tua fede e proclamare Gesù Cristo a questo mondo, a questo pensiero. È lì che va incarnata la sapienza del Vangelo. E la sfida della missione che vi attende richiede, oggi più che mai, competenza e preparazione. Oggi più che mai: ci vuole studio, competenza, la preparazione per parlare con questo mondo.
E la formazione pastorale, la quarta dimensione, vi spinga ad andare con entusiasmo incontro alla gente. Si è preti per servire il Popolo di Dio, per prendersi cura delle ferite di tutti, specialmente dei poveri. Disponibilità agli altri: è questa la prova certa del sì a Dio. E niente clericalismo, l’ ho detto già. Essere discepoli di Gesù significa liberarsi di sé stessi e conformarsi ai suoi stessi sentimenti, a Lui che è venuto “non per essere servito ma per servire” (cfr Mc 10,45). Il vero pastore non si stacca dal popolo di Dio: è nel popolo di Dio, o davanti – per indicare la strada – o in mezzo, per capirlo meglio, o dietro, per aiutare coloro che restano un po’ troppo indietro, e anche per lasciare un po’ che il popolo, che il gregge, con il fiuto ci indichi dove ci sono i nuovi pascoli. Il vero pastore deve muoversi continuamente in questi tre posti: davanti, in mezzo e dietro. Alle volte, io vedo libri o congressi sul sacerdozio che toccano questo, questo aspetto, quell’ altro, quell’ altro, quell’ altro, quell’ altro. È vero, bisogna studiare tutto ciò, ma se tutti questi aspetti non hanno le radici nella tua appartenenza al santo popolo fedele di Dio, sono soltanto riflessioni accademiche che non servono. Tu sei prete del santo popolo fedele di Dio, tu sei sacerdote perché hai il sacerdozio battesimale e questo non potete negarlo.
“Cercate i vecchi preti, quelli che hanno la saggezza del buon vino”
Vorrei, infine, ringraziare i vostri Pastori – voi e i vostri colleghi: grazie – e le vostre comunità diocesane per la testimonianza di comunione ecclesiale, data dalla scelta di valorizzare l’ istituzione interdiocesana e regionale del Seminario: questo a me piace tanto. E anche per necessità, perché una diocesi che ha quattro seminaristi non può avere un seminario con quattro o cinque o sei seminaristi: ci vuole la comunità.
In un’ epoca storica in cui si assiste – al di fuori come all’ interno della Chiesa – a chiusure di stampo “campanilistico”, l’ esperienza di comunione che state vivendo è un bell’ esempio anche per altre diocesi che, attraverso la condivisione di un comune progetto formativo, saranno aiutate a reperire formatori e docenti adeguati alla grande sfida dell’ accompagnamento vocazionale.
E un’ ultima cosa. In queste quattro dimensioni – intellettuale, pastorale, comunitaria e spirituale – voi avrete dei professori, dei formatori, direttori spirituali e dovete parlare con loro. Ma cercate – nelle vostre diocesi – i vecchi preti, quelli che hanno la saggezza del buon vino, quelli che con la testimonianza vi insegneranno come risolvere dei problemi pastorali, quelli che, da parroci, conoscevano i nomi di tutti, di ognuno dei loro fedeli, anche il nome dei cani: questo me l’ ha detto uno di loro. Ma come faceva lei – ho detto io – a conoscere avendo quattro parrocchie? “No, sì, si può”, mi disse con umiltà. Ma lei era riuscito a conoscere tutti? “Sì, io conoscevo il nome di ognuno, anche il nome dei cani”. E bravo. Un prete così vicino, e anche così vicino al tabernacolo: guardava tutti con la fede e la pazienza in Gesù. Preti vecchi che hanno portato sulle spalle tanti problemi della gente e hanno aiutato a vivere più o meno bene, e hanno aiutato a morire bene tutti. Parlate con questi preti, che sono il tesoro della Chiesa. Tanti di loro a volte sono dimenticati o in una casa di riposo: andate a trovarli. Sono un tesoro.
San Giuseppe vi accompagni e la Madonna vi custodisca. Io vi benedico e voi, per favore, pregate per me, perché questo lavoro è per niente facile! Grazie.