di Gian Guido Vecchi in “Corriere della Sera” del 7 marzo 2021
Raccontano che il grande ayatollah si sia alzato per andare ad accogliere Francesco sulla soglia, cosa che non aveva mai fatto per nessuno. Ali Al-Husayni Al-Sistani ha novant’anni e vive in una piccola casa nel perimetro della moschea di Najaf, il luogo dove è sepolto l’imam Ali, cugino e genero di Maometto, cuore dell’islam sciita. Il senso del viaggio del Papa in Iraq è tutto nell’immagine di questi due uomini che si guardano negli occhi, uno in veste bianca e l’altro nera, seduti uno di fronte all’altro in una stanza spoglia, due divanetti, un tavolino d’angolo con una scatola di fazzoletti, un vecchio condizionatore sulla parete intonacata in bianco. Ed è importante che la più alta autorità degli sciiti di Najaf, considerati più moderati di quelli iraniani, abbia espresso «preoccupazione per i cittadini cristiani che dovrebbero vivere come tutti gli iracheni in pace e sicurezza, e nel pieno rispetto dei loro diritti costituzionali», come hanno fatto sapere i suoi portavoce, in un colloquio incentrato «sulle grandi sfide che l’umanità deve affrontare in quest’epoca a causa di ingiustizie, oppressione, povertà, persecuzione religiosa e intellettuale e soppressione delle libertà».
Francesco di lì a poco lo sillaberà nella piana di Ur, primo Papa in duemila anni nella terra di Abramo: «Da questo luogo sorgivo di fede, affermiamo che Dio è misericordioso e che l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione».
Così quella di ieri è stata un’altra tappa decisiva, e preparata da mesi, nella strategia del dialogo di Bergoglio. Due anni fa, il 4 febbraio 2019, firmò ad Abu Dhabi il «Documento sulla fratellanza umana» con l’imam Al-Tayyib, grande imam di al-Azhar e massima autorità dell’islam sunnita. Ora si aggiungono i tre quarti d’ora con il più autorevole leder sciita, un colloquio riservato durante il quale Francesco, fa sapere il Vaticano, «ha ringraziato il grande ayatollah Al-Sistani perché, assieme alla comunità sciita, di fronte alla violenza e alle grandi difficoltà degli anni scorsi, ha levato la sua voce in difesa dei più deboli e perseguitati, affermando la sacralità della vita umana e l’importanza dell’unità del popolo iracheno». Al-Sistani denunciò i «crimini efferati» di Daesh. Così Francesco, spiega il portavoce Matteo Bruni, «ha sottolineato l’importanza della collaborazione e dell’amicizia fra le comunità religiose perché, coltivando il rispetto reciproco e il dialogo, si possa contribuire al bene dell’Iraq, della regione e dell’intera umanità».
Più tardi, a Ur, nella piana dominata dalla ziggurat sumera, dopo il canto iniziale si leggono le parole di Genesi 12 (il comando di Dio: «Il Signore disse ad Abram: vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò») e un brano del Corano. Ed è un paradosso amaro, indicativo della situazione in Medio Oriente, che all’incontro interreligioso nella patria del «padre di tutti i credenti» — il patriarca dell’alleanza di Dio con Israele, cui risalgono anche cristianesimo e islam — non ci sia neanche un ebreo, tra musulmani, cristiani, yazidi, sebei mandei, rappresentanti dello zoroastrismo. Ma Francesco parla a nome di tutti: «Qui, dove visse Abramo nostro padre, ci sembra di tornare a casa. Qui egli sentì la chiamata di Dio, da qui partì per un viaggio che avrebbe cambiato la storia. E oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo facendo come lui: guardiamo il cielo e camminiamo sulla terra». Il Papa sillaba: «Non ci sarà pace senza popoli che tendono la mano ad altri popoli. Non ci sarà pace finché gli altri saranno un loro e non un noi. Non ci sarà pace finché le alleanze saranno contro qualcuno, perché le alleanze degli uni contro gli altri aumentano solo le divisioni. La pace non chiede vincitori né vinti, ma fratelli e sorelle. Chiediamolo nella preghiera per tutto il Medio Oriente, penso in particolare alla vicina, martoriata Siria». Da dove cominciare?
«Dalla rinuncia ad avere nemici. Chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l’inimicizia», scandisce Francesco. Di rado il suo tono è stato così solenne: «Il padre Abramo, egli che seppe sperare contro ogni speranza, ci incoraggia. Sta a noi, umanità di oggi, e soprattutto a noi, credenti di ogni religione, convertire gli strumenti di odio in strumenti di pace. Sta a noi avere il coraggio di alzare gli occhi e guardare le stelle, le stelle che vide il nostro padre Abramo, le stelle della promessa».