di Virginio Colmegna in “Avvenire” (Milano) del 24 novembre 2020
Il dono di Martini a Milano. Ci invitò a custodire la dimensione di preghiera contemplativa: non potevamo essere semplicemente un’opera caritativa, ma dovevamo raccontare una storia di speranza.
Caro direttore, ricorrono in questi giorni i 18 anni della Fondazione Casa della carità di Milano. Era il 2002. Nel diventare maggiorenni, mi sono chiesto cosa significasse per me, in quanto prete, aver visto crescere e accompagnare questa realtà voluta dal cardinal Martini e vissuta sempre non solo come servizio o risposta operosa di carità. Mi sono interrogato come credente inquieto di una Chiesa affascinata dalla parola del Vangelo. In questi 18 anni vi è stata in me la maturazione riflessiva del grande dono che Martini ci ha fatto, quello della gratuità. Vale a dire del bisogno di far spazio, nell’ospitalità organizzata, a un’accoglienza aperta, senza condizioni, calcoli, rette, ma sostenuta dalla capacità di richiamarsi alla «eccedenza della carità». Per Martini, la parola carità doveva essere come ripulita da un semplice significato di elemosina per elevarsi in una dimensione contemplativa capace di sfidare la giustizia e di raccontare la speranza. Ed è nell’incontro con i poveri, gli ultimi della fila, gli «sprovveduti» che tutto ciò si realizza. Da prete sento davvero la gioia per una Chiesa che mi ha permesso di vivere pastoralmente questa vicinanza alle persone più fragili. Ricordo spesso che la foresteria ha sempre accompagnato nella storia l’esperienza del monastero. Oggi abbiamo bisogno, in questa foresteria che è diventata il mondo intero, di monastero. Cioè di far scorrere, nel quotidiano delle storie che viviamo, una sete contemplativa, che non distragga certo dall’urgenza dei drammi delle tante emergenze che ci sono, ma che sappia interiorizzare l’ascolto del grido della povertà e renderlo invocazione, intercessione, preghiera, spazio da custodire nel silenzio.
Papa Francesco ha richiamato la Chiesa a non essere una ong. È certamente una provocazione perché non possiamo non organizzarci, non professionalizzarci o non interloquire con la politica con coraggio e competenza. Tutto ciò continuerà a esserci, ma la provocazione sta nel farci riflettere su quel che manca e che, invece, non può mai mancare. Vale a dire quel rispondere alla domanda «Perché facciamo quel che facciamo?», dichiarando passione per l’umanità sofferente e quel sentimento di legame di fraternità che lo stesso Papa ci ha regalato con Fratelli tutti: un respiro che ci fa sognare un mondo nuovo, «cieli nuovi e terra nuova». Sono parole che non diventano retorica se affondano in un’interiorità contemplativa e in un silenzio riflessivo che non sbiadiscono col passare degli anni, bensì si riscoprono sempre più fresche.
Anche oggi, nel contesto così drammatico della pandemia che viviamo, ci sentiamo accompagnati da grandi interrogativi che non possono essere silenziati dall’urgenza delle tante emergenze. Dio dove sei? Che senso ha continuare? Le risposte consolatorie non devono appartenerci. Dobbiamo piuttosto essere attraversati dall’avvertire l’avventura della fede, che fa cantare dentro noi stessi un silenzio interrogato dai volti, dalle storie, dalle sofferenze. È questo il tempo in cui celebrare l’inno della fraternità. Sì, abbiamo bisogno di monastero, di slancio contemplativo che si fa trasportare dall’ascolto della Parola. Ecco allora come il richiamo per la Chiesa a non ridursi soltanto a braccio operativo o all’essere una sorta di Protezione civile sussidiaria, è da vivere come un liberare la parola carità nella sua dinamica contemplativa. Nel consegnarci Casa della carità 18 anni fa, il cardinal Martini ci invitò a custodire proprio la dimensione di preghiera contemplativa: non potevamo essere semplicemente un’opera caritativa, ma dovevamo raccontare una storia di speranza. E continueremo ancora a farlo, anche da maggiorenni.
Sacerdote, presidente Fondazione Casa della carità ‘Angelo Abriani