di Fulvio Ferrario in “Riforma” – settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi – del 12 giugno 2020
Una premessa: queste considerazioni non intendono in alcun modo commentare la dolorosa vicenda che coinvolge la Comunità di Bose e il suo fondatore, Enzo Bianchi.
Quest’ultima ne è solo l’occasione. I fatti sono noti: in seguito a difficoltà interne al monastero, il Vaticano è intervenuto, su richiesta della comunità stessa, e ha deciso, con decreto «inappellabile», l’allontanamento da Bose di Bianchi e di altre tre persone.
Tra le innumerevoli reazioni, mi ha colpito quella del gesuita Bartolomeo Sorge, per anni direttore de La Civiltà cattolica, poi dell’Istituto di Formazione politica “Pedro Arrupe” di Palermo. Sorge invita Bianchi ad «accettare con amore la sofferenza della prova», perché «la croce si accetta anche senza capirne le ragioni»; «quando la Chiesa interviene, si bacia la mano della Chiesa che è nostra madre»; «le botte prese sono l’autenticazione dell’opera di Dio» (cito da un articolo di Luciano Moia su Avvenire del 29 maggio). Tale linguaggio non è nuovo, naturalmente: un’obbedienza di tal genere è stata richiesta e spesso ottenuta innumerevoli volte nella storia anche recente del cattolicesimo. Spesso chi colpiva citava l’obbedienza dei colpiti del passato (ad esempio Chenu, Congar, Mazzolari e innumerevoli altri) come esempio per i colpiti più recenti (Küng, Schillebeeckx, Boff, ecc.).
Come credente evangelico sono impressionato.
Credo sarebbe un grave errore liquidare questo atteggiamento spirituale in nome, che so, della libertà evangelica o, ancor meno appropriatamente, della democrazia o dei diritti dell’essere umano.
Discorsi come quelli di padre Sorge non sono a cuor leggero e manifestano un amore per la chiesa e un rispetto della sua autorità che dovrebbero far riflettere la fede protestante. Quanto spesso trattiamo la chiesa come una semplice associazione, preferibilmente anarcoide, e ci mostriamo del tutto incapaci di comprendere il senso dell’esercizio dell’autorità nella comunità cristiana. Basta qualche citazione imparaticcia di Lutero o di qualcun altro per trasformare la nostra cosiddetta coscienza nel tribunale (anch’esso inappellabile, come la curia romana!) dal quale dipende il nostro operare e, se ci riesce, anche quello della comunità. Usata in rapporto alla chiesa e a chi ha il compito di dirigerla, una parola come “obbedienza” ci appare non solo estranea, bensì ripugnante: e parlo anche di me stesso. Da un certo punto di vista, le parole di Bartolomeo Sorge meritano di essere meditate in preghiera.
Non basta dire (anche se con ragione): quella evangelica è una vera chiesa. Bisogna anche pensare, sentire, vivere la chiesa e, in essa, l’autorità.
Detto questo, non riesco a respingere, di fronte a questo sentire cattolico, un’impressione di sublimazione mistica dell’obbedienza che mi inquieta almeno quanto le tendenze anarcoidi in ambito evangelico. Gli aspetti di perplessità sono diversi e vanno dalla naturalezza nell’uso del linguaggio della “croce” (che a mio giudizio andrebbe, proprio in questo contesto, problematizzato), all’immaginario del “baciare la mano” che ti schiaffeggia. Non potendo però, in questa sede, entrare in dettagli, mi concentro sul punto principale.
L’amore per la chiesa come corpo terreno del Risorto (chi si scandalizzasse per queste espressioni sappia che sono di Ernst Käsemann, uno che non ha bisogno di lezioni di protestantesimo, né di critica biblica) non deve accecare di fronte al fatto che essa è anche una realtà umana, la quale non può fare a meno di forme di potere. Esse restano tali anche se intendono porsi a servizio della comunità. Demonizzarle non ha alcun senso. Nessun corpo sociale può vivere senza autorità, la quale deve avere strumenti per essere efficace. Questo è il “potere” nella chiesa.
Se le forme del suo esercizio, tuttavia, anziché essere analizzate criticamente, sono trasfigurate in una mistica della chiesa, che identifica in modo diretto l’autorità con Cristo stesso, la frittata è fatta.
Non solo il potere sfugge al controllo della comunità, ma risulta direttamente divinizzato e comanda obbedienza a se stesso, identificandosi con Cristo; con ciò esso si pone, in linea di principio, al di sopra di ogni critica, che viene bollata come ribellione malvagia alla propria “madre”. Tutto ciò, come si può facilmente constatare, presuppone l’identificazione secca, nonostante ogni appassionata difesa della tesi contraria, tra chiesa e autorità ecclesiastica. Se la dimensione umana della chiesa risulta (per dirla molto, ma molto prudentemente) sottovalutata in questo modo, ciò inibisce un’analisi spregiudicata delle dinamiche di potere in essa all’opera, con conseguenze di enorme rilievo.
Credo che essere protestanti significhi prendere le distanze non solo da tali effetti, ma anche dalle loro cause, assumendosi i rischi, spesso non piccoli, che questo comporta