di Luca Kocci in “il manifesto” del 23 aprile 2022
Lo stallo dei negoziati fra Russia e Ucraina, che dura ormai da diversi giorni, produce conseguenze anche in Vaticano. Ieri papa Francesco, in un’intervista al quotidiano argentino La Nación, ha fatto un doppio annuncio: non incontrerà Kirill, patriarca ortodosso di Mosca e di tutte le Russie, e non andrà a Kiev. Almeno per ora.
«Mi dispiace che il Vaticano abbia dovuto annullare un secondo incontro con il patriarca Kirill, che avevamo programmato per giugno a Gerusalemme, ma la nostra diplomazia ha ritenuto che un incontro tra noi in questo momento potesse portare molta confusione», ha spiegato Bergoglio a Joaquin Morales Solà, il giornalista argentino che lo intervistava.
In una fase in cui le posizioni appaiono sempre più polarizzate, anche nel dibattito pubblico internazionale, sarebbe troppo grande il rischio per papa Francesco, incontrando Kirill, di essere arruolato fra i filorussi. Tanto più che il capo della Chiesa ortodossa russa, fin dall’inizio del conflitto, non ha fatto mistero delle proprie posizioni: ha giustificato l’aggressione di Putin all’Ucraina come una sorta di “guerra santa” in difesa dei valori tradizionali e diretta contro la modernità occidentale, le cui libertà civili sarebbero antitetiche alla legge divina e naturale; e ha benedetto le truppe, invocando l’intercessione della Madonna per una vittoria «rapida».
Del resto a Francesco da più parti viene rimproverato di non puntare sufficientemente il dito contro Purin e la Russia, chiamandoli esplicitamente per nome. «Un papa non nomina mai un capo di Stato e tanto meno un Paese», ha spiegato Bergoglio alla Nación. L’incontro con il patriarca di Mosca avrebbe sicuramente peggiorato le cose – vedi le critiche incassate dal pontefice per aver fatto portare la croce a una donna ucraina e anche a una russa durante la Via Crucis al Colosseo, per questo oscurata dalla televisione di Stato di Kiev – e indebolito il ruolo di mediazione che la Santa sede, sebbene senza grandi risultati, sta cercando di mantenere. «Ci sono procedure in corso», ha rivelato il papa, ma «non posso raccontarle i dettagli perché non sarebbero più sforzi diplomatici. Ma i tentativi non cesseranno mai».
Insieme al no a Kirill è arrivato anche il no a Kiev, all’eventualità di un viaggio del pontefice nella capitale ucraina, che egli stesso non aveva escluso, rispondendo ai giornalisti sull’aereo che a inizio aprile lo stava portando a Malta. «Non posso fare nulla che metta in pericolo obiettivi superiori, che sono la fine della guerra, una tregua, o quantomeno un corridoio umanitario», ha spiegato ieri Francesco alla Nación. «A cosa servirebbe che il papa andasse a Kiev se la guerra il giorno dopo continuasse?».
Evidentemente in Vaticano tre settimane fa c’era maggiore ottimismo e, per quanto difficile, non si escludeva del tutto la possibilità di una trasferta a Kiev. Ma da un lato non sono stati rimossi gli ostacoli che segnalavamo all’indomani delle parole del papa a Malta, cioè una tregua e il “nulla osta” da parte di Kirill (v. il manifesto, 3 aprile). E dall’altro il rischio “arruolamento” di Bergoglio esiste anche da parte Ucraina: l’invito a Kiev era arrivato da Zelensky in persona, in una telefonata con Bergoglio a fine marzo, quindi il viaggio sarebbe sicuramente stato fatto oggetto di strumentalizzazione politiche. La posizione del papa è chiara, come emerge dalle risposte ad altre due domande. Una sulla visita all’ambasciatore russo presso la Santa sede, all’indomani dell’inizio dell’invasione: «È stata una responsabilità mia personale, stavo indicando al governo che può porre fine alla guerra immediatamente». E una sulla bandiera ucraina, srotolata e baciata durante l’udienza generale del 6 aprile: «È stato un gesto di solidarietà verso i suoi morti, le sue famiglie e quanti sono stati costretti a emigrare». Nessuna neutralità, quindi, ma volontà di non essere arruolato né di rilasciare benedizioni a nessuno dei contendenti.