di Erri De Luca in “la Repubblica” del 18 marzo 2020
Ho una personale definizione di natura: è dove non esiste presenza umana, o è trascurabile e di passaggio. Quando vado in montagna in zone remote, ecco che mi trovo dentro un pezzo di mondo com’era prima di noi e come continuerà a essere dopo.
Natura è spazio totalmente indifferente a noi, in cui percepire la propria misura minima e intrusa.
Non è un campo giochi né area da scampagnata fuori porta. Incute timore per l’immenso che sovrasta, premessa di rispetto e di ammirazione.
La bellezza di natura non è scenografia, è uno stato di provvisorio equilibrio tra energie colossali, eruzioni, terremoti, uragani, incendi.
Napoli, mia origine, ha un golfo leggendario per bellezza, opera di cataclismi che l’hanno determinata. Bellezza di natura è l’intervallo tra sconvolgimenti. Questa non è una conclusione filosofica, soltanto la mia percezione fisica. Perciò per me natura è lo spazio della nostra assenza.
Dove esiste insediamento, uso il termine: ambiente. Il latino ambire significa circondare. Il participio presente ambiens è ciò che circonda. La specie umana fin dai suoi esordi si è sentita circondata, stabilendo con il territorio rapporti di forza oscillanti tra difesa e conquista. Ai giorni nostri è evidente che ambiens non circonda più, invece? circondato dall’espansione numerica della specie e dei suoi mezzi di sfruttamento. L’ambiente sopraffatto si arrende.
Ecco che un’epidemia di polmoniti interrompe l’intensità dell’attività umana. I governi stabiliscono restrizioni e rallentamenti. L’effetto pausa produce segnali di rianimazione dell’ambiente, dai cieli alle acque. Un intervallo relativamente breve mostra che la minore pressione produttiva fa riprendere colore alla sbiadita faccia degli elementi.
La micidiale polmonite che soffoca il respiro, sta a specchio dell’espansione umana che soffoca l’ambiente.
L’ammalato chiede aria e aiuto a nome di sé stesso e del pianeta intero.
Uno che legge molto riconosce, o crede di riconoscere, simboli e paradigmi negli avvenimenti.
Il monoteismo istituì il Sabato, che alla lettera non è giorno di festa ma di cessazione. La divinità prescrisse l’interruzione di ogni specie di lavoro, compresa la scrittura. E impose limiti alle distanze percorribili a piedi in quel giorno. Il Sabato, è scritto, non appartiene all’Adàm: il Sabato appartiene alla terra.
Questa ingiunzione di lasciarla respirare imponendosi arresto è stata ignorata. Non credo che la terra si riprenda i suoi Sabati sottratti. Credo invece che calpestare i Sabati produca le brusche sospensioni della nostra occupazione di pianeta. Per la terra è una tregua.
Per la prima volta nel corso della mia vita assisto a questo rovesciamento: l’economia, l’ossessione della sua crescita, è scalzata dal piedistallo, non è più misura dei rapporti e autorità suprema.
Improvvisamente la salute pubblica, l’incolumità dei cittadini, diritto uguale per tutti, è la parola d’ordine unica e imperativa.
Nel caso Italia l’idolatria dell’economia si è permessa l’arbitrio di infischiarsene delle conseguenze di attività nocive. Dallo spargimento di amianto nello scavo della Val di Susa all’intossicazione di Taranto, la pubblica salute è trattata da variabile secondaria. Le uccisioni per guasto ambientale sono considerate danni collaterali di attività legittime e impunite. Sono invece crimini di guerra compiuti in tempo di pace a danno di popolazioni ridotte a suddite di signorìe.
Ecco la ribalta improvvisa, l’economia caduta da cavallo e subordinata a nuova precedenza: la vita pura e semplice. I medici e non gli economisti sono le autorità massime. È una conversione.
Migliora il rapporto tra cittadini e Stato, i governi si trasformano da garanti del Pil a difensori strenui della comunità.
Certo è uno stato di eccezione e non si vede l’ora di arrestare l’epidemia e tornare al pieno ritmo precedente. Però il Sabato della terra semina insieme ai lutti uno spiraglio di diversa vita per i superstiti. Perché da ora in poi ognuno è uno scampato provvisorio. È un sentimento che mi avvicina di più a tutti quelli ai quali non posso stringere la mano.
Un’altra inversione si registra nel caso Italia. Dalla sua unità in poi ci sono stati flussi migratori dal meridione verso l’arco alpino. Ora rientrano in massa a flusso inverso, fino al recente blocco dei ritorni. Lo studioso dell’ambiente Guido Viale notava che l’epicentro dei contagi in Cina, Germania, Italia, coincide con le aree a maggiore inquinamento atmosferico, indizio di una predisposizione all’aggressione delle vie respiratorie.
Il meridione percepito come terra rifugio, asilo sanitario, riaccoglie i suoi figli. Non vale qui la parabola del figliol prodigo. Non partirono per scialacquare, ma per necessità. Non tornano pentiti, ma sgomenti di affrontare isolamenti lontano dagli affetti, bisognosi di ascoltare un poco di dialetto, madrelingua affettuosa.
Chissà che non migliori, con l’umore, il sistema immunitario.
Cambiata la graduatoria delle priorità, ora conta l’urgenza di salvarsi e anche di scontare l’imprecisata quarantena in luoghi familiari. Il meridione, percepito più salubre, è di certo ambiente più cordiale per placare l’ansia di uno stato di assedio.
«Basta che ce sta ‘o sole, basta che ce sta ‘o mare…». Non è una terapia riconosciuta, però fa bene all’anima affacciarsi al balcone e farsi illuminare