di Romano Prodi in “Il Messaggero” del 10 maggio 2020
Nell’intenso anche se non sempre lineare lavoro delle istituzioni europee è opportuno commentare, seppure brevemente, le due decisioni prese durante la settimana appena trascorsa e, partendo da queste, porsi una domanda cruciale riguardo al futuro.
Cominciamo con una buona notizia: è finalmente conclusa la storia senza fine del Mes. Ed è finita bene: dal primo giugno l’Italia potrà attingere a 36 miliardi di credito dalle casse europee. Il prestito potrà durare fino a 10 anni e avrà un tasso di interesse intorno allo 0,1%. L’unica condizione è che venga riservato alle spese dirette e indirette legate alla pandemia. Questo non risolve certo tutti i problemi italiani ma, anche se si tratta di un prestito e non di un aiuto a fondo perduto, le condizioni sono tali da renderlo conveniente sotto ogni aspetto anche perché, in un momento per noi molto delicato, alleggerisce il ricorso ai mercati finanziari da parte del nostro Tesoro.
Naturalmente, nell’incomprensibile labirinto della nostra politica, se ne discuterà ancora nei prossimi giorni mentre si dovrebbe, a partire da domani, prendere decisioni sull’impiego di questi fondi. Si tratta infatti di una concreta occasione per rianimare il nostro sistema sanitario, troppo sacrificato in passato.
La seconda notizia è meno buona: parliamo della sentenza della Suprema Corte Federale tedesca che, addirittura in termini di ultimatum, vuole porre limiti all’azione della Banca Centrale Europea che, secondo il dispositivo della sentenza, avrebbe preso decisioni giuridicamente definite ultra vires, cioè sostanzialmente illegittime. L’immediata reazione da parte della BCE, della Presidente della Commissione, del Presidente del Parlamento tedesco e della Corte Suprema Europea, ha fatto in modo che tale sentenza non possa avere conseguenze concrete. Essa costituisce tuttavia il più robusto e autorevole tentativo di rovesciare l’ormai consolidato principio del primato della legge e della Corte europea sulle leggi e le corti nazionali. Se cade questo principio cade l’Europa perché ogni Corte costituzionale autorizzerebbe il proprio Paese ad interpretare a suo modo i trattati comunitari.
Non pensiamo solo agli aspetti economici, ma riflettiamo su come le Corti polacche o ungheresi potrebbero immediatamente opporsi alle norme europee riguardanti la divisione dei poteri dello Stato o la protezione dei diritti fondamentali dei cittadini. Nel recente passato, proprio in conseguenza di un intervento della Corte europea, la Corte polacca ha dovuto infatti sospendere l’efficacia di una sentenza ritenuta lesiva dell’indipendenza della magistratura e delle garanzie giurisdizionali dei cittadini.
Quest’inaspettata presa di posizione della Corte suprema tedesca mi spinge tuttavia a una riflessione politica più generale proprio perché nasce in un Paese del tutto speciale e in un momento del tutto speciale.
Il Paese è speciale perché la sua economia è speciale. La Germania ha infatti da lungo tempo raggiunto il primato dell’economia europea e, negli ultimi anni, non solo lo ha di molto aumentato, ma ha costruito una tale rete di rapporti con altri Paesi europei in conseguenza della quale essi, dal punto di vista della dipendenza economica, si stanno praticamente trasformando in Länder, della Germania. Il problema è oggi reso ancora più acuto dalle conseguenze economiche del Coronavirus.
Basti pensare che, nell’impressionante numero di miliardi di aiuti di Stato recentemente autorizzati dalla Commissione Europea per il sostegno delle attività produttive, oltre la metà è destinata alla Germania. Evidentemente l’intero insieme degli altri 26 Paesi ha fatto richiesta di autorizzazioni per meno della metà del totale.
Tanto per non creare equivoci ripeto quanto ho sempre sostenuto: questo processo è conseguenza non dei vizi, ma delle virtù della Germania. È frutto della sua coesione sociale, della sua tecnologia e delle sue capacità organizzative. Nello stesso tempo amo tuttavia ripetere che l’Unione Europea è un’Unione di minoranze e che ogni buon sistema democratico si regge solo su un certo equilibrio dei suoi componenti. Penso perciò che il mettere mano ad un riequilibrio europeo debba essere obiettivo prioritario delle nostre riflessioni sul futuro dell’Unione.
Per questo motivo ritengo che l’accordo fra Francia, Italia, Spagna e numerosi altri Paesi di sostenere i Recovery Bond abbia non solo un significato economico, ma apra anche una riflessione sulla necessità di preparare migliori equilibri nella politica europea.
Il fatto che su un problema che incide in modo così simbolico sui pesi economici nell’Unione sia stata presentata una piattaforma alternativa a quella tedesca da un numero di paesi che rappresentano più della metà della popolazione europea, non è senza significato. Certamente la chiave di un potenziale riequilibrio è nelle mani della Francia che, operando opportunamente insieme alla Germania, ha sempre contribuito a raggiungere i necessari compromessi politici e che è ora chiamata a rinnovarli, correggendo gli squilibri che si sono accumulati. Ci attendiamo quindi nuove proposte che facciano avanzare il progetto europeo nei campi dove il ruolo francese, soprattutto dopo la Brexit, è prevalente. Mi riferisco, con accento particolare, alla politica estera, alla presenza europea nel Consiglio di Sicurezza e alla politica di difesa. Il nuovo equilibrio europeo si raggiunge solo facendo passi in avanti: in questi capitoli i passi in avanti non sono solo possibili, ma doverosi.