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Se l’ecumenismo sia o non sia un’utopia

di Paolo Ricca in “Riforma” – settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi – del 17 febbraio 2023

Ringrazio il pastore Rapisarda per il suo articolo intitolato La Chiesa degli ultimi tempi (“Riforma” del 10 febbraio, p. 15) per due motivi: il primo è aver riproposto il tema dell’ecumenismo, il secondo è aver sollevato la questione dell’apostolo Pietro, del suo ruolo storico e possibile valore simbolico.
Cominciamo dall’ecumenismo. Le domande sono tante: è un’utopia (come sembra dire il pastore Rapisarda)? Vale la pena dedicargli tempo, energie, sforzi e preghiere? S’ha da fare, oppure no? È tempo perso, oppure riscattato? Si può fare un discorso ecumenico nella Basilica di S. Pietro in Vaticano, oppure lì ogni parola ecumenica diventa irrimediabilmente “ambigua” (come sembra suggerire il pastore Rapisarda), mentre se fosse detta a Ginevra, presso il Consiglio ecumenico delle Chiese, non lo sarebbe? La Chiesa Cattolica Romana, nel suo centro direzionale vaticano, è ecumenicamente affidabile, oppure no? Abbiamo le carte in regola per stabilire noi se lo sia? Gli interrogativi potrebbero continuare, ma quelli posti sono più che sufficienti per illustrare il nodo della questione.
Sollevare la questione ecumenica significa sollevare la questione della Chiesa. L’articolo del pastore Rapisarda è intitolato La Chiesa degli ultimi giorni.
Che Chiesa è? È la Chiesa dei primissimi giorni, non dunque quella che deve ancora venire, ma quella che esiste da quando è nata a Pentecoste, appunto come Chiesa degli ultimi giorni, dell’«ultima ora» (I Giovanni 2, 18), della «notte avanzata e del giorno vicino» (Romani 13, 12), del «tempo abbreviato » (I Corinzi 7, 29). La Chiesa delle origini era la Chiesa della fine, e già essa – come vediamo dal Nuovo Testamento – era divisa. L’unità cristiana è sempre stata una vocazione più che una realtà.
L’idea secondo la quale la Chiesa è stata unita nei suoi primi mille anni di vita, e le divisioni sono venute nel secondo millennio, non corrisponde alla realtà, è al massimo una mezza verità, ma proprio solo mezza.
Ma proprio questa constatazione potrebbe avvalorare la tesi secondo cui l’ecumenismo è un’utopia, ma non è così. L’unità cristiana non è un’utopia: è un comandamento disubbidito, un dono ignorato, una promessa tradita, una parola non presa sul serio, un debito non saldato nei confronti di Dio e del mondo, è la Chiesa che nega una parte costitutiva di se stessa, che quindi non sa più bene che cosa significhi essere Chiesa. È vero che tutte le Chiese sono comodamente insediate nella divisione, e non se ne inquietano granché, ma questa è un’anomalia, di cui purtroppo molti cristiani non si rendono neppure più conto, tanto è diventata normale da sembrare ovvia.
Il pastore Rapisarda ritiene che io, parlando il 22 novembre scorso nella Basilica di S. Pietro, abbia
de facto «lanciato l’idea che dal Vaticano possa nascere un nuova stagione ecumenica», ma questo è «un sogno», e «il Vaticano non sembra il luogo per simili sogni». Non mi sembra di aver lanciato idee del genere. Ho ipotizzato – questo sì – la nascita di una “papato ecumenico”, completamente diverso da quello esistito finora, unicamente al servizio dell’unità cattolica – un papato al servizio dell’unità cristiana, che ovviamente potrebbe nascere solo attraverso una sua completa trasformazione, una specie di morte e risurrezione sia sul piano dogmatico, sia su quello politico. Impossibile? Per Dio nulla è impossibile.
Il Vaticano – lo sappiamo – ha sempre sognato l’unità cristiana come “ritorno” dei dissidenti o “separati” all’ovile romano. Questo sogno è svanito – così sembra – con il Concilio Vaticano II. In Vaticano si comincia a parlare di “diversità riconciliata” – una visione dell’unità cristiana elaborata nell’ambito del Consiglio Ecumenico delle Chiese già nel 1974 (quasi 50 anni fa!), poi avallata dalla Assemblea mondiale della Federazione luterana a Curitiba (Brasile) nel 1990. Così pure si parla di “comunione conciliare”, come se ne parla a Ginevra da molto tempo. A me pare che

qualcosa si stia muovendo anche a Roma. L’invito a un pastore valdese per la prima volta in 850 anni a parlare “in libertà e fraternità” nella Basilica di S. Pietro in Vaticano, tempio massimo del cattolicesimo romano, deve pure voler dire qualcosa.
La seconda questione sollevata dal pastore Rapisarda riguarda la nota parola rivolta da Gesù a Simone: «Tu sei Pietro [Gesù gli cambia nome], e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». È importante notare che Gesù non dice: «Io fonderò la mia Chiesa», ma «io edificherò la mia Chiesa». Non si parla qui di fondazione, ma di edificazione: sono due cose completamente diverse. Il fondamento è Cristo, nessuno ha mai sostenuto il contrario. E Gesù edifica la sua Chiesa su coloro che, come Pietro, lo riconoscono e confessano come Messia. Costoro sono “tanti piccoli Pietro” di cui Gesù si serve per costruire la sua Chiesa un po’ dappertutto nel mondo. Questo pensiero può essere nuovo nella forma, ma è vecchio di secoli: da sempre il protestantesimo (ma non solo lui!) sostiene che ciò che rende un cristiano “Pietro”, cioè “pietra” e “roccia” con cui edificare la Chiesa è la confessione di Gesù come Messia. Il pastore Rapisarda teme che quelle mie parole, forse per il luogo in cui sono risuonate, siano state «ambigue »: non so se lo siano state, ma le reazioni ricevute dimostravano piuttosto il contrario: il discorso era stato fin troppo chiaro!