Vito Mancuso, La Stampa 24 novembre 2023
L’altra sera, invitato da mia figlia, ho partecipato con lei e il suo ragazzo alla manifestazione contro la violenza sulle donne organizzata a Bologna da “Non Una di Meno”. C’erano diverse migliaia di persone, per lo più giovani, in maggioranza donne, ma anche noi uomini non eravamo pochi, ho persino intravisto alcuni signori definibili, come me, “di una certa età”. Cartelli, fischietti, alcune trombe, qualche pentola e relativi cucchiai, insomma le solite cose usate da sempre nelle manifestazioni per fare baccano e farsi notare. Di nuovo, per lo meno per me, c’erano le chiavi di casa, agitate da molte ragazze per simboleggiare con il loro tintinnio che neppure in casa si sentono sicure. Le agitava anche mia figlia, però con l’altro braccio si stringeva a me, quindi quel suo gesto non mi preoccupava. Al di sopra ovviamente svettavano gli slogan, gridati con forza e passione dalle giovani donne. Il più ripetuto era il seguente: “Lo stupratore / non è malato, / èfiglio sano / del patriarcato”.
Il patriarcato. Mentre sentivo ripetere centinaia di volte questa parola, per tutti in quella piazza il nemico numero uno, non potevo fare a meno di pensare alla nostra civiltà. Tutto sbagliato? Anche il termine “patria”? E che dire poi della nostra religione? “Padre nostro che sei nei cieli”. “Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. “Papa” significa padre, e a Venezia e in altre antiche città il capo della chiesa si chiama “patriarca”. Se poi si apre la Bibbia è un vero e proprio imperversare del patriarcato, a partire ovviamente dai patriarchi biblici Abramo, Isacco, Giacobbe, con le loro mogli e schiave e concubine, per giungere al re Davide, che di mogli ne ebbe una decina, e a suo figlio Salomone che ne ebbe centinaia. Certo, la Bibbia conosce anche donne indipendenti come Rut, Ester, Giuditta, ma si tratta di eccezioni. Il Dio maschile, primo e assoluto patriarca, fondamento di ogni altro patriarcato, si rivolge agli uomini, a loro consegna la sua legge con i dieci comandamenti di cui l’ultimo recita: “Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Esodo 20,17). La donna, qui pensata da subito come moglie, viene collocata tra la casa e gli schiavi e gli animali, cosa tra le cose. E ancora oggi per molti uomini e per molte donne queste parole maschili sono “Parola di Dio”.
Non che nelle altre religioni le cose siano molto diverse, visto che l’invocazione alla divinità sotto il nome di Padre è un fenomeno primordiale, riscontrabile pressoché ovunque: in Mesopotamia, nell’antico Egitto, in Grecia dove Omero sia nell’Iliade sia nell’Odissea chiama Zeus “padre degli uomini e degli dei”, a Roma dove il termine padre è già contenuto nel nome del dio supremo Jupiter, e in India dove ci si rivolge a Krsna, avatara di Viśnu, dicendo: “Tu sei il padre di questo mondo”. Fa eccezione l’islām, per il quale è vietato parlare di Dio come “padre” perché ritenuto troppo confidenziale, ma ciò non ha impedito proprio lì l’instaurarsi di un pesantissimo patriarcato. Insomma: Dio è padre, io sono padre, io quindi sono un dio: questo è il grossolano sillogismo della mente maschile di ogni tempo.
Ho preso in considerazione la religione perché soprattutto in essa veniva condensata l’anima profonda di un popolo con i suoi ideali e i suoi valori. Ma qual è la lezione da trarre dalla prevalenza del patriarcato in tutte le importanti civiltà del pianeta? La risposta, a mio avviso, è la seguente: l’adorazione della forza. Il patriarcato cioè rimanda, ben più che al maschilismo, al prevalere universale della forza. In quanto fisicamente più forte, il maschio è il sommo sacerdote di questa primitiva struttura archetipica la cui logica fondamentale è la forza, con ciò che ne consegue, cioè il potere da un lato e la sottomissione dall’altro. La violenza fisica fino all’assassinio non è che la più eclatante manifestazione di questa struttura, la quale, ancora oggi, pervade ogni ambito vitale. Ancora oggi infatti l’economia, il diritto, la politica, la tecnologia, la cultura, lo sport, la religione, sono esattamente questo in quasi tutte le loro manifestazioni: adorazione della forza.
Se un maschio alza le mani contro una donna lo fa perché vuole che lei gli sia sottomessa, e probabilmente cerca di riscattare così i casi in cui a essere sottomesso deve essere lui, nell’ambito lavorativo, o tra gli amici o in altre cento situazioni. Neppure le donne però sfuggono a questa logica imperante e impersonale della forza. Anzi, oggi non poche di esse tendono sempre più a “maschilizzarsi”: lo si capisce dal linguaggio volgare, prima appannaggio dei maschi e ora non più, e anche dalla vera e propria violenza fisica che alcune di loro riservano ad altre donne, come capita purtroppo di leggere con una certa frequenza nelle cronache quotidiane.
La vera questione non è quindi il fatto che uno sia maschio e l’altra sia femmina, il patriarcato o il matriarcato, anche perché vi sono uomini che non adorano anzi combattono la forza (vedi Gandhi) e vi sono donne che adorano e usano la forza (vedi Margaret Thatcher). Il punto focale riguarda piuttosto la seconda componente del termine “patri-arcato” o “matri-arcato”, cioè il suffisso “arcato” che rimanda al greco “arché” che in questo caso significa “potere, comando, sovranità”. Il punto focale è la forza, con il potere che essa conferisce.
Ha scritto una delle più grandi pensatrici del nostro tempo, Simone Weil: “La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa”. Continuava dicendo che la forza omicida è solo una forma grossolana della forza, la quale conosce diverse e più sottili manifestazioni, tutte accomunate dal mutare un essere umano in una cosa: “È vivo, ha un’anima; e nondimeno è una cosa”. Il problema deriva dal fatto che “l’anima non è fatta per abitare una cosa”, e per questo, quando vi è costretta, “non vi è più nulla in essa che non patisca violenza”. Conclude Simone Weil: “Che un essere umano possa essere una cosa è, da un punto di vista logico, una contraddizione; ma quando l’impossibile è divenuto realtà la contraddizione diventa strazio nell’anima”.
Per questo, al di là dei sorrisi di circostanza, stiamo tutti male e siamo preda di una sensazione di prigionia. Da qui il nostro linguaggio violento e aggressivo, nei toni della voce, prima ancora che nei termini e nei contenuti. Siamo tutti prigionieri del dio della forza, anche se ovviamente lo sono in primo luogo coloro che alzano le mani, tanto più se lo fanno in modo vigliacco contro chi è più debole.
Per quanto mi riguarda l’unica liberazione che conosco è la cultura, la quale suscita e fa fiorire dentro di me quella dimensione che Simone Weil chiamava “anima”. Tutto nel nostro mondo avrebbe bisogno di più anima. Concludo a questo proposito con un fatto personale per ricollegarmi con lo spunto personale da cui sono partito. Un giorno un amico iconografo mi volle regalare un’icona dipingendola appositamente per me e mi disse di scegliere il soggetto. Io scelsi Sophia, Hagía Sophía, la divina Sapienza. L’icona che ora è in casa mia la raffigura in trono, circondata dagli angeli. Non il Dio maschile e dominatore, bensì la Sapienza con il volto di donna, perché è la dimensione femminile (presente in ogni essere umano) a esprimere relazione e non forza, armonia e non imposizione di sé. Questa è la vera divinità, il sommo ideale a cui educarci ed educare sciogliendo il nodo di spine del patriarcato, e di ogni altro “arcato”, dentro di noi.