Il volontariato in Etiopia di cinque donne che esprimono tanta fiducia nel futuro
di Giovanna Vitagliano
Cinque donne, quindici valige piene di doni e di speranza. Dopo la notte passata in aereo, ci siamo presentate così alla missione di Shashamanne, nel sud dell’Etiopia, una delle zone più povere del pianeta. Cinque marziane venute da un mondo dove le donne possono fare le cose che fanno gli uomini, anche viaggiare da sole da un continente all’altro!
Comincio così questa mia piccola cronaca perché, come dice un detto etiope, «nascere asini e donne è una grande disgrazia». Nascere asini vuol dire trascinare carretti stracolmi di taniche sporche piene di acqua presa da qualche ruscello della zona e da vendere al mercato; nascere donne vuol dire fare i conti con una cultura patriarcale dove alle bam-bine viene ancora praticata l’infibulazione, le donne non hanno diritti, fanno i lavori più umili e faticosi e, soprattutto, sono destinate a mettere al mondo tanti figli! E infatti, camminando per i centri abitati, ciò che colpisce è il gran numero di giovani che popolano le strade; giovani senza lavoro, senza scuola, senza speranza.
Il finestrino della Jeep con la quale sono venuti a prenderci all’aeroporto, mi ha subito offerto l’impietoso affresco della miseria più estrema. Bambini che al mercato rovistano tra le immondizie per recuperare qualche frutto marcio, donne accovacciate davanti alle loro povere mercanzie: patate, arance, cipolle…, ragazzini seduti sul ciglio della strada che masticano cat, un’erba che attenua i crampi allo stomaco dovuti alla fame, una ragazza con un barattolo che raccoglie acqua sporca da una pozzanghera e la versa in un secchio.
È agosto, la stagione delle piogge, Shashamane si trova su un altopiano a 2.000 metri sul livello del mare, fa freddo e c’è fango ovunque, molti bambini sono a piedi scalzi e poco vestiti. Tristezza infinita e senso di impotenza; siamo sopraffatte dalla consapevolezza che, per quanto si possa fare, è sempre solo una goccia nell’oceano. Nunzia, la nostra responsabile, dice che non dobbiamo scoraggiarci e che dobbiamo accontentarci anche solo di far sentire la nostra vicinanza umana. È così che dice, ma lei è una donna saggia, io non lo sono: la miseria e la sofferenza, soprattutto dei bambini, mi stringe il cuore.
Il primo giorno di lavoro ci siamo divise i compiti. Nunzia è impegnata a incontrare i referenti etiopi dei vari progetti in corso: riforestazione, microcredito, scuole, pozzi. Bisogna verificare l’andamento delle iniziative e controllare che i finanziamenti inviati dall’Italia siano stati spesi bene. Pina e Mara vanno a visitare le detenute del carcere femminile locale dove la nostra associazione – affiancata da due sisters della congregazione di Charles de Foucauld – sostiene il Centro Promozione Donna, che ha l’obiettivo di restituire dignità e speranza attraverso il lavoro e l’alfabetizzazione delle detenute. L’analfabetismo raggiunge il 70% della popolazione femminile. Le recluse di Shashamane non sono solo persone private della libertà, ma spesso sono madri che hanno con sé i propri figli. In un paese fortemente patriarcale, per una donna le occasioni di finire in prigione non mancano, basta ribellarsi ai soprusi dei mariti per essere rinchiuse dopo un processo sommario. Il penitenziario è una struttura formata da un’unica camerata che ospita circa 100 donne. Convivere in così poco spazio è difficile: il sovraffollamento provoca problemi di igiene e genera conflittualità. Donne carcerate, ciascuna col peso del proprio vissuto e col senso di colpa di far subire ai figli la loro stessa reclusione.
Io e Marisa, la ginecologa del gruppo, siamo destinate al Centro Distribuzione Alimenti. Abbiamo portato due grosse valigie piene di vestitini per neonati e saponette per le madri. È lunghissima la fila di donne devastate dalle troppe gravidanze accorse per farsi visitare da Marisa. C’è un continuo via vai di mamme con i loro figli legati dietro la schiena, vengono a prendere la farfa, una farina di cereali e legumi altamente proteica. Molti piccoli hanno i sintomi della malnutrizione, i primi segni sono i capelli che cominciano a ingiallire e il viso e i piedini gonfi. Piove, i bambini sono coperti solo con delle magliettine di cotone lacere e sporche.
Siamo di nuovo in viaggio, destinazione Hosanna dove l’anno scorso abbiamo inaugurato una casa-famiglia per bambine, costruita su un terreno messoci a disposizione dal vescovo della diocesi. I chilometri da percorrere non sono molti ma il viaggio dura 5 ore. In molti punti le strade sono impraticabili, portano ancora i segni dei combattimenti che ci sono stati in zona, fino a qualche tempo fa, tra i ribelli tigrini e l’esercito governativo. Ora gli scontri si sono spostati nel nord, nella regione del Tigray. Alla miseria si aggiunge la guerra civile che sta mietendo tante vittime e sta allungando spaventosamente l’elenco dei piccoli orfani.
Finalmente arriviamo a Hosanna. Ci vengono incontro trenta bambine cantando il loro benvenuto. Emozione infinita! I visini timidi e timorosi che abbiamo lasciato l’anno scorso, si aprono in sorrisi gioiosi. Le parole non servono, bastano gli sguardi, i fiori, gli abbracci. Le ragazzine più grandi ci mostrano orgogliose i murales coloratissimi dipinti sui muri esterni della casa e i laboratori che si stanno costruendo lì accanto: un forno, già funzionante, una sartoria e una bottega artigianale, entrambi in fase di completamento. Si spera un giorno di rendere la casa economicamente autonoma e avviare al lavoro le ragazze più grandi. La sera, tra l’allegria generale, mangiamo tutte insieme le pizze cotte nel nostro forno. Certo i problemi non mancano, il numero delle adozioni dall’Italia è diminuito, l’inflazione in Etiopia galoppa al 30% ma, la sera, sentire le risatine delle bambine che si rincorrono nel corridoio delle camere da letto ci apre il cuore alla speranza.
Dopo una settimana siamo di nuovo in viaggio, la destinazione è l’aeroporto di Addis Abeba. Si torna a casa. In lontananza comincia a intravvedersi la città avvolta in una nube di smog. Ci inoltriamo nel traffico senza regole, le strade sono intasate di vecchie auto dai cui tubi di scappamento fuoriesce veleno puro. Qua e là svettano grattacieli che arrivano a venti piani, molti non sono completati e recano già i segni del disfacimento. Il nostro ac-compagnatore ci spiega che si tratta di costruzioni che la vecchia classe dirigente – ora in galera – aveva finanziato con i proventi della corruzione e che adesso, mancando i soldi, rimarranno così per chissà quanto tempo. Basta abbassare lo sguardo per vedere le povere case fatte di fango con i tetti di lamiera, nelle quali vive la popolazione più povera di questa caotica e rumorosa metropoli. Con il Covid e i cambiamenti climatici, i poveri sono aumentati in modo esponenziale, molti hanno lasciato i villaggi per venire in città nella speranza di una vita migliore ma, il più delle volte, li attende solo un’esistenza affidata all’elemosina dei più ricchi.
Proseguiamo verso l’aeroporto. Lo scintillio delle luci di questa modernissima costruzione contrasta in modo stridente con la miseria che ci siamo lasciate alle spalle; il divario sempre più profondo tra ricchi e poveri è una piaga che sta investendo il mondo intero, ma diventa drammatica in quelle parti del mondo dove non è garantita nemmeno la sopravvivenza alimentare.
Miseria, corruzione, guerra, cambiamenti climatici: ci vuole tanta fiducia nel futuro per non lasciarsi sopraffare dallo scoraggiamento. È così che dice la mia amica Nunzia, ma lei è una donna saggia, io molto meno.
GIOVANNA VITAGLIANO
Nata ad Aversa (1955), ha insegnato economia negli Istituti superiori della sua città. Per circa un decennio ha collaborato con padre Vincenzo M. Romano, teologo e scritturista, curando i suoi numerosi testi di teologia. Ha pubblicato due romanzi a sfondo teologico: Luce antica (2015) e Un viaggio (2017). Impegnata nel volontariato, attualmente dedica il suo tempo alla pittura destinando il ricavato al sostegno di progetti in Etiopia.