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Anno sabbatico

Nell’antica tradizione ebraica, a partire dal V secolo a.C., l’anno sabbatico era quel periodo durante il quale, in onore a Dio e secondo le leggi Mosaiche, si lasciava riposare la terra, si condonavano i debiti e venivano liberati gli schiavi. Schiavi, infatti, erano quelle persone che, per debiti non pagati o reati commessi, dovevano lavorare per la famiglia del creditore fino a risarcirne i danni. Durante questo periodo il creditore provvedeva al mantenimento dello schiavo e, alla sua liberazione, gli versava una somma che gli consentisse di riprendere una vita normale. La restituzione si concludeva in ogni caso nell’anno sabbatico, che cadeva ogni sette anni: per questa ragione si diceva che era fortunato colui che iniziava a pagare i propri debiti in un momento vicino al settimo anno.

Riposo – SABATO E DOMENICA
l’universale della creazione e il particolare dell’esodo

di Piero Stefani

Sabato e domenica rimandano entrambi al tema del precetto: la festa è tale se è comandata: «osserverai la festa degli azzimi» (es 23,15), ecc. Al giorno d’oggi la dimensione del comando sembra essere scarsamente percepita. Il linguaggio del vecchio catechismo appare a tutti obsoleto. tuttavia l’aver avvilito il giorno del Signore, ponendolo sotto la tutela della messa di precetto o della minaccia del peccato mortale, non giustifica la reazione che pretende di risolvere la celebrazione festiva in un aggregarsi spontaneo di una comunità. Il comando esplicito porta con sé l’idea che la festa è un punto d’arrivo che va conquistato: bisogna imparare a festeggiare. oggi abbiamo dimenticato questo aspetto. Appunto questo è il senso del precetto biblico che segna non il raggiungimento di una meta, bensì l’apertura di un cammino che deve essere appreso.

Colti in questa luce sabato e domenica hanno qualcosa in comune; senza però dimenticare che, nel primo caso, si tratta di un comandamento esplicito, mentre la fondazione neotestamentaria del secondo è solo mediata e, per alcuni, inesistente.

L’espressione del fatto che la festa sia legata a un comando è costituita dal calendario. La scadenza temporale rappresenta un tratto vincolante per la vita di una collettività. La tradizione ebraica ha posto in rilievo che il primo comandamento dato al popolo di Israele è: «Questo sarà per voi l’inizio dei mesi» (es 12,2). Ci troviamo perciò di fronte a un’altra caratteristica che lega la domenica al sabato: la sua periodicità settimanale. ogni settimana il giorno del Signore segue quello che celebra il completamento dell’opera creatrice di Dio. Senza il racconto biblico della creazione non ci sarebbe la domenica, o almeno non come una giornata di festa ogni sette giorni.

Il sabato (shabat «cessare») è il settimo giorno che suggella l’opera della creazione (Gn 1,1-2,4a). Il respiro universale proprio di questo riferimento primordiale subisce però una ridefinizione se l’attenzione si sposta dal sabato alla sua osservanza. L’accento posto sull’osservanza ha come conseguenza che il testo biblico davvero fondativo per il settimo giorno vada rinvenuto nella rivelazione sinaitica e non nel primo racconto della creazione (Gn 2,2-4a). non per questo scompare il respiro universale del sabato. tuttavia il suo riferimento diviene ora la motivazione del precetto contenuta nel decalogo presente nell’esodo. L’apertura all’universalità non può quindi prescindere dalla peculiare osservanza ebraica del settimo giorno. una seconda conseguenza di questa impostazione si trova nel fatto che nell’ebraismo il primato, anche in relazione al sabato, va attribuito alla halakhà (la componente normativa) e non già alla haggadà (la componente narrativa).

Questa diversa accentazione risulta evidente dal semplice confronto tra le due versioni del precetto del sabato presenti nel Decalogo (es 20,8-11 e Dt 5,12-15). nelle due formulazioni le motivazioni sono diverse: nell’esodo l’opera della creazione, nel Deuteronomio l’esodo dall’egitto. Queste ragioni differenti non incidono sul carattere di mizwà (precetto) proprio del riposo sabbatico, creazione ed esodo possono coesistere, senza che ciò si ripercuota sulla messa in pratica del comandamento.

Prendendo in considerazione le due motivazioni di sopra possiamo riscontrarvi l’intreccio tra l’universale della creazione e il particolare dell’uscita dall’egitto. Quest’ultimo riferimento è fondamentale sia per la costituzione d’Israele sia per il tipo di vita prescritto dopo l’uscita dalla schiavitù (Dt 5,12-15). Per Israele il sabato è segno di un’alleanza perenne perché memoriale settimanale di una liberazione che riguarda, oltre al settimo, tutti gli altri giorni della settimana. Il sabato non concerne solo il riposo, ma anche lo stile dell’attività svolta nei sei giorni precedenti. Questa osservanza del precetto del settimo giorno è peculiare al popolo ebraico. […] La celebrazione settimanale della domenica pone i cristiani di fronte all’ardua vocazione di testimoniare a Israele e annunciare alle genti la salvezza del risorto. rispetto a questa tensione, all’eucaristia spetta un’assoluta centralità. La connotazione escatologica della domenica fa sì che quel giorno non possa essere vissuto esclusivamente come un comandamento. Ciò però non significa né che per Israele il sabato non sia da vivere come un precetto, né che questa sua veste sia un segno di aridità spirituale. Questa valutazione che giudica diversamente le due giornate esprimerebbe la scorretta operazione di servirsi di due pesi e di due misure, se sabato e domenica fossero realtà tra loro omogenee e confrontabili. tuttavia è proprio quest’ultima ipotesi che va destituita di fondamento: il sabato è il giorno che è chiesto a Israele di osservare, mentre la domenica è la giornata in cui i cristiani, siano essi ebrei o gentili, celebrano la risurrezione del loro Signore attendendone la venuta.

La tendenza a «domenicalizzare» il sabato, vedendovi un’originaria intenzione cristologica orientata alla nuova creazione, svaluta il significato dell’osservanza ebraica del settimo giorno.

I motivi storici che hanno condotto a vivere la domenica come sabato cristiano sono molti; tra essi ve ne è anche uno connesso alla difficoltà di vivere settimanalmente e ciclicamente la novità escatologica della risurrezione.

tuttavia la memoria della risurrezione di Gesù Cristo racchiusa nella domenica fa sì che la sua collocazione autentica sia di essere il primo giorno dopo il sabato. Per restar fedele a questo compito la domenica deve rinunciare alla falsa pretesa di essere il vero «sabato». Il sabato è e resta ebraico. La vocazione escatologica della domenica non ha bisogno di ereditare in se stessa il sabato, tuttavia per essere riproposta settimanalmente essa necessita che «altri», gli ebrei, ricordino e osservino il settimo giorno.

La domenica è definita dal principio in base al riferimento neotestamentario che ambienta la risurrezione nel primo giorno dopo il sabato. Questa espressione, il cui sottofondo originario è puramente cronologico, assume un significato escatologico incrociandosi con il «terzo giorno», quello in cui Gesù Cristo risorse secondo le Scritture (v. 1Cor 15,4; cf os 6,2). Il primo giorno della settimana riceve perciò una connotazione escatologica riservata al terzo giorno. La settimana cristiana è tuttora legata a questa scansione del sette e del tre. Se la domenica è «Pasqua settimanale» ogni settimana contiene in sé il triduo pasquale. Prescindendo dal complesso problema dell’origine storica della domenica, il sette, l’uno e il tre rimangono i parametri cronologici fondamentali della celebrazione settimanale di Gesù risorto. L’evento, nel suo incipit pienamente escatologico, viene riproposto lungo un asse settimanale: è contato secondo i giorni anche se li trascende. una comunità cristiana può vivere pienamente il senso della domenica solo cogliendo il paradosso di un tempo ciclico chiamato a essere fragile involucro della memoria di un evento escatologico. L’aspetto paradossale non va dissolto, va collocato in giusta prospettiva. Quest’ultima ha almeno due risvolti: uno nell’osservanza ebraica del sabato, l’altro nella capacità di vivere il giorno che celebra una pienezza della risurrezione nella prospettiva dell’attesa. «Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta».