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Cercare ancora

Il senso profondo e bello dell’amicizia

la convinzione di don Mario nasce dal vangelo: «non vi ho chiamati servi ma amici»

Come cercare la pace?

A farlo in astratto, concettualmente, ci si perde, perché dipende dai punti di vista. Bisogna farlo in concreto, mettendosi dal punto di vista delle vittime delle guerre, a cominciare da quelle tanto vicine a noi che è impossibile voltarci dall’altra parte. L’Ucraina offre uno scenario di disumanità: bambini uccisi o deportati, donne stuprate, profughi e sfollati a milioni, anziani in solitudine presi per fame e per freddo.

Una “guerra totale”, cioè un’aggressione indiscriminata alla popolazione e alle infrastrutture, per cui «si demolisce tutto ciò che non si riesce facilmente a conquistare» (così il comandante russo del Donbass, riportato da Francesca Mannocchi su La Stampa, e del resto documentato da Amnesty International).

Crimini di guerra secondo la Corte penale internazionale, che perciò ha emesso un mandato di cattura internazionale nei confronti del presidente Putin. Come cercare ancora la pace in questa catastrofica crisi dei diritti umani? Sembra basti un’assenza di guerra, anche cedendo alle pretese dell’aggressore. Ma per Emmanuel Mounier, il filosofo del “personalismo comunitario”, questa era la posizione del “pensionato”. Si riferiva all’entusiasmo con cui i pacifisti di allora, a Londra e a Parigi, accolsero il trattato di Monaco, con cui Inghilterra e Francia (seguite dall’Unione sovietica) cedettero alle mire espansionistiche di Hitler sulla Cecoslovacchia.

«Questo pacifismo – egli scrisse – nel settembre del 1938 non aveva a cuore la giustizia dei Sudeti, né quella dei Cechi, né quella dei Trattati, né quella delle loro vittime, né l’ingiustizia della guerra, ma aveva una sola ossessione: che non si interrompessero i suoi sogni di pensionato». Certo senza entusiasmo, ma la rassegnazione a una soluzione simile si diffonde nel movimento per la pace. Il momento critico che sta attraversando dacché è iniziata la guerra è evidente nei cortei. Il fiume di novembre a Roma il 25 febbraio si è ridotto a un “ruscello” (come ha scritto il Manifesto). Vi serpeggia un sottile scoramento, la sensazione che, al fondo, sotto le bandiere dell’arcobaleno non ci sia niente, che le manifestazioni siano inutili. E certo non sono servite a fermare la guerra.

Ma, a parte il numero ridotto di partecipanti, ha colpito anche l’assenza degli ucraini in Italia.

Alle prime manifestazioni di un anno fa partecipavano e prendevano la parola. Nella ricorrenza del primo anno di guerra, invece, hanno manifestato da soli. I motivi sono chiari: il loro Paese sta resistendo a un attacco armato e ha quindi bisogno di armi, come sta avvenendo, mentre il movimento per la pace ha parole e gesti anche notevoli di solidarietà ma è contro l’in vio delle armi. Lo stesso cessate il fuoco è diventato divisivo perché per gli ucraini è condizionato al ritiro delle truppe ai confini del 23 febbraio, come del resto stabilito anche dall’ultima risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, mentre per i pacifisti è incondizionato, benché sia evidente che così si cristallizzerebbe la situazione raggiunta militarmente sul terreno e si porrebbero le basi per una resa dell’Ucraina. Manifestare, però, solidarietà a un popolo che la sente come vuota, mina la credibilità del movimento e lo consegna all’irrilevanza sul piano istituzionale.

È necessario perciò costruire una superiore unità nel cercare ancora la pace. Ma non è facile, risolvere la tensione tra pacifismo finalistico – profetico e pacifismo istituzionale.

Norberto Bobbio, cui si deve questa distinzione, evidenziava che il primo è più efficace ma meno attuabile dell’altro, perché mira al disarmo e alla fraternità non violenta: quella perorata nell’Enciclica di papa Francesco. La nonviolenza è una vocazione personale, non si può imporre agli altri. Posso sentirmi interpellato dal detto di Gesù di non reagire a chi mi percuote una guancia e anzi di offrirgli anche l’altra.

Ma non posso imporlo, o anche solo consigliarlo, alla persona che vedo percossa o maltrattata o violentata.

Anzi ho il dovere di intervenire in sua difesa.

Sosteneva Gandhi che «sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio di gran lunga migliore della codarda sottomissione. Quest’ultima non reca beneficio a nessun uomo e a nessuna donna».

Sul piano militare, poi, la resistenza non violenta dell’aggredito è efficace se inibisce l’aggressore. La regola, come dice Michael Walzer, è «tu non puoi spararmi perché io non ti sto sparando». Essa è applicabile, pertanto, quando anche l’aggressore si riconosce in questo superiore codice morale. Ed è ciò che fece l’esercito inglese davanti alle campagne nonviolente di Gandhi. La resistenza nonviolenta può anche aiutare la resistenza armata: come quella delle donne italiane che utilizzavano armi della sfera privata e personale: «appello agli affetti, fragilità esibita, impudenza calcolata, spesso la tattica del piccolo dono – un pezzo di pane bianco, una sigaretta – offerto al nemico in segno di pace». Meno idealistico ma più attuabile è il pacifismo istituzionale: il pacifismo politico, delle possibilità. Alla pace si potrebbe addire quel che Pasolini diceva della carità: «bisogna uscire dalle idee generali – per provarla»: di qui la sua domanda formulata ruvidamente: «Anime belle del c**o, per cos’altro, se non per un’istituzione, moriranno tanti piccoli, sublimi vietcong»? Lo disse lapidariamente Carlo Smuraglia, il partigiano presidente onorario dell’Anpi, subito dopo l’invasione: «Chi esercita la resistenza contro la prepotenza va aiutato anche con le armi». E certo, nel contempo, anche con gli sforzi per un armistizio e per una pace negoziata da pari a pari. Come uscire da questa guerra non è nelle nostre mani, nelle mani dei pacifisti.

È nelle mani delle grandi potenze. Auspichiamo che sia anche nelle mani della Unione europea, che però sta troppo sotto l’ombrello della Nato, tanto da confondersi con essa. Può provocare però il classico “effetto farfalla” il pacifismo operativo, quello del volontariato, che in Ucraina sta rischiando il corpo di ciascun volontario. Questi operatori di pace compiono azioni di pace non violenta, conservano relazioni umane, creano spazi di umanizzazione, aprono cammini di pace dentro al conflitto.

Quanto a noi qui in Italia dobbiamo sostenere i loro sforzi operando per un cambiamento culturale.

Resistere all’aggressione russa perché, se la Russia dovesse vincere, costituirà un precedente tanto più grave perché posto in essere da uno Stato membro del Consiglio di sicurezza dell’ONU: diventerà ammissibile ridisegnare con la forza i confini degli Stati, impedendo un patto di rifondazione pacifica tra i popoli, travolgendo perfino quello fissato nella Carta dell’ONU del 1945. Per evitare questo effetto, tuttavia, bisogna resistere alla guerra intesa come vittoria dell’Occidente, sconfitta dei russi, umiliazione, dissanguamento. Certo, la pace è opera della giustizia. Ma nell’era del nucleare non si può cedere all’etica integralistica del fiat iustitia, pereat mundus. Fare la guerra senza volerla vincere: questo è necessario. Nella consapevolezza, cioè, che essa è sconfitta di tutti.

Diffondere, quindi, la cultura della pace come “non vittoria”.

Se vuoi rendere efficace, incisivo il pacifismo, prepara il pacifismo. È un lavoro complesso, che non si esaurisce nel chiedere disarmo e diplomazia. Per diffondere la cultura della pace, educare alla pace, occorre, come disse ai tempi della guerra del golfo don Tonino Bello, “organizzare” – non semplicemente auspicare senza aderenza al principio di realtà – la speranza della pace.

E così anche contribuire affinché gli ucraini, come tutti i popoli aggrediti, non si ritrovino – per dirla con il salmo riecheggiato da Quasimodo – ad appendere mute le cetre ai salici di una terra diventata straniera.

NICOLA COLAIANNI: Magistrato della Corte suprema di Cassazione fino al 2003, è professore di Diritto ecclesiastico italiano e comparato all’Università degli studi Aldo Moro di Bari. Tra le sue numerose opere: l’«Introduzione» alla raccolta di scritti di Giuseppe Dossetti Costituzione e resistenza (1995), Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale (2006) e Diritto pubblico delle religioni. Eguaglianza e differenze nello Stato costituzionale (2012), entrambe con il Mulino, e Confessioni religiose e intese (1990) e Tutela della personalità e diritti della coscienza (2000), entrambe con Cacucci Editore.