Imparare a vivere le relazioni è indispensabile per diventare “figli”
di don Carlo Molari
Imparare a vivere i rapporti è la condizione imprescindibile del nostro diventare figli, cioè del nostro crescere come persone. Nella definizione classica, la persona individuo veniva definita per la “separazione da tutti gli altri”. Oggi, al contrario, la persona viene definita nelle connessioni e nelle relazioni che stabilisce: è un cambiamento profondo della cultura attuale che contraddice completamente la precedente concezione, per quanto ci siano ancora oggi residui di quel razionalismo illuminista che ha esasperato l’autonomia della persona. La nostra esigenza è di cogliere l’aspetto comunionale di relazione, dato che tutti i processi sociali (come anche le scienze umane) hanno messo in luce la struttura sempre più complessa delle relazioni che costituiscono la trama della nostra esistenza.
Noi riusciamo a capire noi stessi se riusciamo a ricostruire i rapporti iniziali che abbiamo avuto con i nostri genitori e le esperienze iniziali che abbiamo fatto perché realmente siamo costituiti da quella storia. Questo è il cambiamento avvenuto: mentre nella cultura illuminista e razionalista la persona veniva considerata in se stessa, nella sua autonomia e perfezione compiuta, attualmente la persona viene colta come il risultato di un complesso di relazioni e di esperienze.
Di qui l’importanza dei rapporti che viviamo, delle esperienze che compiamo: perché è attraverso tutto questo che noi stiamo diventando.
Se la comunità è l’ambito fondamentale del nostro divenire, è importante considerare attentamente questa nostra condizione comunitaria per valorizzarla, anche negli elementi di difficoltà che le relazioni ci pongono, perché questo è il nostro ambito vitale, quello attraverso cui diventiamo capaci di amore e di vita.
Noi non cresciamo se non viviamo rapporti e dobbiamo guardarci, tante volte, dall’idea che abbandonando le nostre comunità, cercando altri ambiti, si risolvano i problemi: le difficoltà si spostano e si ripresentano, perché i problemi sono nostri. Così anche per il matrimonio e le relazioni di coppia: alcuni giungono a moltiplicarle, anche molte volte, perché se non si impara a vivere le relazioni si fallisce sempre; da ciò deriva l’importanza di valorizzare l’ambito in cui ci troviamo perché, in genere, non si può scegliere la comunità di vita. Come quando veniamo al mondo: la famiglia è quella che è, non possiamo prima scegliere la famiglia e poi nascere.
È importante recuperare la propria storia, anche con i drammi che contiene perché l’azione di Dio è tale, la forza della vita è tale che, nonostante le difficoltà, noi possiamo giungere al traguardo della nostra identità filiale. Questo è un dato che dobbiamo sempre avere presente: nessuno ci può impedire di diventare figli di Dio; qualsiasi esperienza possiamo aver fatto e in qualsiasi condizione ci troviamo ora, possiamo pervenire e diventare perché, come dice Paolo, nessuna creatura può separarci dall’amore di Dio (Rm 8,39). Da parte nostra, però, è necessario che ce ne rendiamo conto e che impariamo a vivere le relazioni.
In questa prospettiva comprendiamo il significato della Chiesa come comunità salvifica per noi. La Chiesa è un ambito dove le relazioni devono essere vissute come espressione della forza creatrice che ci conduce alla nostra identità filiale. Questo non vuol dire che le persone che ne fanno parte siano perfette, vuol dire che noi, consapevoli di questo, siamo in grado di vivere le relazioni e di stabilire rapporti tali da accogliere l’azione di Dio.
Incontrare gli altri nella fede, nella speranza e nell’agape significa essere certi che ogni relazione consente di accogliere una Parola, di accogliere un dono dello Spirito – se l’abbiamo atteso, se ci mettiamo in ascolto – e, quindi, di mettere in moto la dinamica spirituale per cui cresciamo come figli.
Dobbiamo avere questo orizzonte: al di là dei difetti delle persone, la relazione in quanto tale ci consente, se la viviamo in questa prospettiva, di vivere e di crescere. Anzi, a volte più ci sono difetti più ci sono possibilità di esercitare l’agape e di accogliere l’azione di Dio, perché noi riusciamo a riempire il vuoto, a esprimere misericordia, a esercitare perdono. Questo presuppone allenamento, esercizio, però fa capire l’importanza di una comunità in questa prospettiva. […] La comunità ecclesiale non è sorta perché Gesù ha deciso di creare una struttura, è sorta spontaneamente. Gesù, dopo aver pregato una notte intera, ha raccolto intorno a sé dei discepoli perché sapeva che certe attività, certe realizzazioni umane come l’annuncio del regno di Dio – che significa lo sviluppo dell’umanità, di forme nuove di condivisione, di misericordia reciproca, di capacità di perdono – richiedevano una comunità, un intreccio di relazioni. Così è sorta la Chiesa, dove il battesimo è diventato un segno. […] Non dobbiamo pensare che ci fosse già tutto un programma stabilito, che Gesù avesse pensato ai preti, ai vescovi, all’organizzazione; questa esigenza di darsi delle strutture è venuta in seguito, quando le comunità erano già sorte come ambito vitale, come ambito di vita teologale in cui ci si scambiavano doni reciprocamente. E così per tutto lo sviluppo successivo.
[…] Noi dobbiamo considerare la Chiesa prima di tutto come una comunità di vita, dove i rapporti vengono vissuti in questo orizzonte teologale sapendo che c’è una forza arcana che alimenta la vita, ma lo fa, in questa prospettiva teologale, passando attraverso le nostre azioni, le nostre parole, gli scambi di vita, incontrando gli altri.
Dobbiamo esercitarci nella vita comunitaria perché tutti, in ogni caso, siamo in una comunità e non dobbiamo lasciarci prendere dallo scoraggiamento.