Fratelli tutti Semi di vita comune
destinare tempo, impegno e beni per costruire una comunità di appartenenza
La lettera enciclica di papa Francesco sulla fraternità e l’amicizia sociale può essere letta per intero su diversi siti web.
Riportiamo alcuni brani tratti dai primi due capitoli.
Ottocento anni fa, Francesco raccomandava [ai suoi discepoli] di evitare ogni forma di aggressione o contesa e anche di vivere un’umile e fraterna “sottomissione”, pure nei confronti di coloro che non condividevano la loro fede.
Dappertutto egli seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi.
È stato un padre fecondo che ha suscitato il sogno di una società fraterna, perché «solo l’uomo che accetta di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente se stesse, si fa realmente padre» (E. Leclerc, Exilio e Ternura, Madrid 1987). In quel mondo pieno di torri di guardia e di mura difensive, le città vivevano guerre sanguinose tra famiglie potenti, mentre crescevano le zone miserabili delle periferie escluse. Là Francesco ricevette dentro di sé la vera pace, si liberò da ogni desiderio di domino sugli altri, si fece uno degli ultimi e cercò di vivere in armonia con tutti.
Anche oggi, dietro le mura dell’antica città c’è l’abisso, il territorio dell’ignoto, il deserto. Ciò che proviene di là non è affidabile, perché non è conosciuto, non è familiare, non appartiene al villaggio. Riappare «la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti. Perché gli manca questa alterità» (discorso al Collegio San Carlo di Milano, 6 aprile 2019).
In questo mondo che corre senza una rotta comune, si respira un’atmosfera in cui «la distanza fra l’ossessione per il proprio benessere e la felicità
dell’umanità condivisa sembra allargarsi: sino a far pensare che fra il singolo e la comunità umana sia ormai in corso un vero e proprio scisma. […] Perché una cosa è sentirsi costretti a vivere insieme, altra cosa è apprezzare la ricchezza e la bellezza dei semi di vita comune che devono essere cercati e coltivati insieme» (Humana communitas, 6 gennaio 2019).
Se non riusciamo a recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni, l’illusione globale che ci inganna crollerà rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto. Inoltre, non si dovrebbe ingenuamente ignorare che «l’ossessione per uno stile di vita consumistico, soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà provocare soltanto violenza e distruzione reciproca» (Laudato si’, 204). Il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo sarà peggio di una pandemia.
C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana.
Il mettersi seduti ad ascoltare l’altro, caratteristico di un incontro umano, è un paradigma di atteggiamento accogliente, di chi supera il narcisismo e accoglie l’altro, gli presta attenzione, gli fa spazio nella propria cerchia.
Tuttavia «il mondo di oggi è in maggioranza un mondo sordo». Non si presta un’attenzione prolungata e penetrante al cuore della vita, non si riconosce ciò che è essenziale per dare un senso all’esistenza. Il problema è che una via di fraternità, locale e universale, la possono percorrere soltanto spiriti liberi e disposti a incontri reali.
San Francesco «ha ascoltato la voce di Dio, ha ascoltato la voce del povero, ha ascoltato la voce del malato, ha ascoltato la voce della natura. E tutto questo lo trasforma in uno stile di vita.» (Papa Francesco. Un uomo di parola, di Wim Wenders, 2018).
Si dimentica che «non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici, di non appartenere a nessuno. Una terra sarà feconda, un popolo darà frutti e sarà in grado di generare futuro solo nella misura in cui crea legami di integrazione tra le generazioni e le diverse comunità che lo compongono; e anche nella misura in cui rompe le spirali che annebbiano i sensi, allontanandoci sempre gli uni dagli altri.» (discorso a Tallin, Estonia, 27 settembre 2018).
La parabola dell’incontro con «un estraneo sulla strada» è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. La parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune.
Il racconto ci rivela una caratteristica essenziale dell’essere umano, tante volte dimenticata: siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. La narrazione è semplice e lineare, ma contiene tutta la dinamica della lotta interiore che avviene nell’elaborazione della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via per realizzare la fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo, immancabilmente, con
l’uomo ferito. Oggi, e sempre di più, ci sono persone ferite. L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi.
Questa è la sfida attuale, di cui non dobbiamo avere paura. Nei momenti di crisi la scelta diventa incalzante: potremmo dire che, in questo momento, chiunque non è brigante e chiunque non passa a distanza, o è ferito o sta portando sulle sue spalle qualche ferito.
La storia del samaritano si ripete: risulta sempre più evidente che l’incuranza sociale e politica fa di molti luoghi del mondo delle strade desolate, dove le dispute interne e internazionali e i saccheggi di opportunità lasciano tanti emarginati a terra sul bordo della strada.
Oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti. Ci vuole solo il desiderio gratuito, puro e semplice di essere popolo, di essere costanti e instancabili nell’impegno di includere, di integrare, di risollevare chi è caduto; anche se tante volte ci troviamo immersi e condannati a ripetere la logica dei violenti, di quanti nutrono ambizioni solo per se stessi e diffondono la confusione e la menzogna.
Che altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i loro giochi di potere.
Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene.
È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la
stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito.
Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano.
Nessuno può sperimentare il valore della vita senza volti concreti da amare. Qui sta un segreto dell’autentica esistenza umana, perché «la vita sussiste dove c’è legame, comunione, fratellanza; ed è una vita più forte della morte quando è costruita su relazioni vere e legami di fedeltà.
Al contrario, non c’è vita dove si ha la pretesa di appartenere solo a se stessi e di vivere come isole: in questi atteggiamenti prevale la morte». (Angelus, 10 novembre 2019).
Perciò «in ogni caso l’uomo deve pure decidersi una volta ad uscire d’un balzo da se stesso» (K. Rahner, L’anno liturgico, Morcelliana 1964).