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Il coraggio di amare

Spero nella «diversità riconciliata»

questo riconoscimento reciproco è la strada verso l’unità delle chiese cristiane

PAOLO RICCA lo ricordiamo un anno fa, al convegno estivo di Montanino Camaldoli, dove tenne la relazione di apertura su «Il coraggio di sperare», affiancò don Mario in una celebrazione eucaristica realmente ecumenica, seguì con attenzione tutto il convegno dialogando con i partecipanti in tanti momenti informali. Per ricordarlo riproponiamo una intervista che rilasciò per i quaderni di Ore undici nell’estate 2017, pubblicata nel numero di settembre di quell’anno.

Mio padre era pastore della chiesa valdese, nelle valli valdesi del Pellice; era anche laureato in lettere e per un anno ha insegnato al collegio di Torre Pellice in una scuola media, e in quell’anno sono nato io. Poi preferì continuare ad essere pastore e non insegnante e quindi ci trasferimmo a Bobbio Pellice, l’ultimo paese della valle prima degli alpeggi e della frontiera con la Francia alla quale si può accedere anche a piedi. Lì sono vissuto fino ai 12 anni, poi sono stato due anni a Torre e nel ‘50 ci siamo trasferiti a Firenze dove ho fatto il liceo.

Sono diventato membro della Chiesa a Firenze, ma la consapevolezza del significato di appartenere a una Chiesa e di professare una fede l’ho maturata quando ho cominciato gli studi teologici a Roma nel 1954. Studiando la teologia ho preso coscienza del significato e della portata della fede e dell’annuncio della fede, avendo già chiara l’idea di diventare pastore.

Qualcuno dei suoi professori è stato particolarmente significativo nella sua formazione? Sono stato fortunato, perché nella piccola facoltà teologica valdese, l’unica in Italia a livello universitario, ho avuto dei professori di primissimo piano: Valdo Vinai, Vittorio Sibilia e Giovanni Miegge. Questi ottimi professori mi hanno aiutato a capire la serietà della fede, la responsabilità immensa dell’osare parlare di Dio. La seconda fortuna è stata che in quegli anni veniva nella nostra facoltà un grande professore di Basilea, Oscar Kullman, il quale mi propose di andare con lui a Basilea a fare un dottorato. A Basilea ho avuto Karl Barth come insegnante, e anche altri che mi hanno dato molto.

Tutta la sua vita è stata sostenuta dallo studio.

Ho studiato molto, ho scritto ma soprattutto ho predicato.

Ho sempre detto agli studenti che bisogna leggere pochi libri ma giusti, anche per questo ho scritto poco. Leggete Lutero, Agostino: questi sono i libri da leggere, non quelli che scrive un pastore qualunque.

Oltre a predicare, ha anche insegnato.

Ho insegnato alla facoltà valdese e alla pontificia università S. Anselmo, che è l’università dei benedettini.

È stata un’esperienza molto bella, anche perché i benedettini nascono nel VI secolo e sono precedenti alla vicenda drammatica della Riforma e della Controriforma. Questo dà loro uno sguardo più libero di quello che abbiamo noi che siamo nati dentro questa polemica, questa guerra, questa dialettica, questa alternativa, che oggi è naturalmente in una fase nuova. Io per esempio ho conosciuto il cattolicesimo con il Vaticano II.

Quando è arrivato a Roma, nel 1954, quali rapporti aveva con il mondo cattolico? Fino al Concilio per me il cattolicesimo è stato qualcosa di totalmente estraneo. Qualcosa che non mi riguardava e con cui non avevo niente da condividere. C’era un fossato, una mancanza totale di comunicazione positiva. Il Vaticano II ha portato una mutazione profonda nella Chiesa cattolica: con tante lentezze, con tante contraddizioni però è passata.

L’ecumenismo è entrato nell’orizzonte del cattolico medio, nella misura in cui frequenta un po’ la chiesa, e oggi con papa Francesco la situazione è migliorata molto. Questo papa è diverso dagli altri, nel senso che non fa valere i poteri che la dottrina cattolica gli attribuisce. È una cosa molto importante.

Lei lo ha incontrato? L’ho incontrato a Torino quando è venuto al Tempio valdese, ma non ho mai avuto l’occasione di un dialogo vero. Quella visita è stata notevole da vari punti di vista, ma il più importante è che ha chiesto perdono – e io me lo sono segnato interiormente – «a nome della mia chiesa».

Tutti gli altri papi, che avevano già chiesto perdono, uno dopo l’altro, lo avevano sempre fatto a nome di «quei cattolici che avevano deviato», ma non della chiesa. Invece questo papa ha pronunciato parole che cambiano totalmente il significato: perché vuol dire che la chiesa in quanto tale si assume la responsabilità delle persecuzioni, dell’odio, di tutto quello che è successo.

Questa sua convinzione è condivisa nella Chiesa valdese? Sì, credo di sì.

Si aspetta dei passi in avanti importanti? Il riconoscimento delle differenze è pregiudiziale.

Non si fa nessuna unità se non si riconosce il valore delle differenze, e difatti il progetto che oggi viene più comunemente proposto negli ambienti ecumenici è quello della “diversità riconciliata”. Questo è un concetto elaborato dall’assemblea mondiale della federazione luterana, che ebbe luogo in Brasile nel 1990, a Curitiba: lanciarono questa formula della diversità riconciliata. Io credo che l’unità cristiana si possa configurare come diversità riconciliata, cioè come riconoscimento reciproco di tutte le chiese come parte dell’unica chiesa di Cristo, a certe condizioni che devono essere fissate.

Quali sono le difficoltà principali che si pongono oggi? Oggi vi sono alcune difficoltà importanti sul piano ecclesiologico: la prima riguarda il papato, cui la dottrina cattolica riconosce poteri “divini”, che non sono accettabili né dagli ortodossi né dai protestanti; la seconda, conseguente, riguarda il rapporto tra il papa e il concilio di tutte le chiese cristiane. Sono problemi grossi, perché per modificare i poteri del papa bisogna che il papa stesso sia d’accordo. Solo lui può modificare il papato, nessuna altra istanza interna né tanto meno esterna alla Chiesa cattolica può nulla. L’interesse di questo papa rispetto a tutti gli altri, che erano convinti della centralità del papa rispetto al mondo, è che fa il papa senza esibire i suoi poteri di papa.

Non sappiamo ancora come evolverà questo pontificato, ma potrebbe segnare una svolta al pari di quella impressa da Lutero? Sì, si può fare questo accostamento. L’istituzione papale ha svolto un ruolo immenso nella storia della chiesa, indiscutibilmente.

Per avere un futuro ecumenico – cioè per essere una istituzione con cui le chiese ortodosse e protestanti si possano sentire in rapporto – deve morire e resuscitare. Non c’è altra via. La morte e resurrezione è un passaggio biblico fondamentale, l’istituzione cristiana deve morire per salvarsi, altrimenti resterà una istituzione cattolica romana, che le altre chiese non potranno mai riconoscere come rilevante.

Questo vorrebbe dire che il papa fino ad oggi ha servito la chiesa cattolica, ora si mette al servizio di tutta la chiesa. Credo che molti cattolici sarebbero d’accordo, ma è un passaggio che realmente esige una morte e resurrezione.