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Un futuro sostenibile

La cura della vita

la «piazza del mondo» di Trieste è simbolo della cura di ogni essere umano verso il suo prossimo

di Roberto Mancini

Da molti anni anche solo l’accenno all’utopia viene subito respinto perché siamo nel clima cupo e ansiogeno dettato dalla parola “crisi”. Il senso di sfiducia e di precarietà che essa induce si è radicato nello sguardo, nei sentimenti, nella quotidianità di moltissime persone e nella vita dei popoli. Per tale ragione non si può parlare di utopia ingenuamente, senza tenere conto di questo diffuso stato d’animo di segno negativo. Occorre considerare dove ci troviamo esistenzialmente e storicamente. La “crisi” riassume il clima generale in cui le persone si sentono immerse senza che si manifesti uno spiraglio per pensare di poterne uscire.

Ma se si rileggono le cronache della seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, poi quelle dei decenni successivi sino a oggi, si ritrova ogni volta questo termine. E si avverte subito che non è come un problema da risolvere, una sfida da affrontare, piuttosto è come un elemento cupo, avvolgente, vischioso, che tocca subire e che spinge a cercarsi qualche rifugio.

Emergono così alcuni tratti caratteristici che dovrebbero indurre a riflettere meglio. La prima è la durata anomala.

Una crisi è un passaggio arduo, e breve, nel quale un certo processo di vita va verso la rovina o verso la guarigione. Invece la nostra cosiddetta “crisi” non passa mai, è un’istituzione non una situazione eccezionale, è una condizione permanente, non un’emergenza. Un’altra caratteristica sta nel tipo di atteggiamento che la “crisi” sta suscitando da almeno un decennio. Mentre di fronte a un’autentica crisi singoli o gruppi sociali sono sollecitati a costruire una risposta per risolvere i problemi e soprattutto cercano una prospettiva nuova per farlo, nella situazione in cui siamo quasi nessuno si attiva con lucidità e con responsabilità.

Il perdurante adattamento al clima della “crisi” comporta il diffondersi di sentimenti di ansia e di angoscia. In merito ricordo che il sociologo della Scuola di Francoforte Franz Neumann ha osservato come esistano due tipi molto diversi di angoscia. C’è un’angoscia lucida, che ti avverte di un pericolo imminente e ti mette in movimento per agire in maniera congruente. C’è anche un’angoscia nevrotica, che serve soltanto a spaventarti e ti spinge a reagire con modalità incongruenti. La reazione assume una forma persecutoria, proietta la colpa del malessere e della minaccia incombente su qualcuno che funge da capro espiatorio. Allora crescono i muri di separazione, le ronde, l’acquisto e l’uso delle armi, l’accanimento contro i poveri e gli stranieri, le politiche dell’odio e della paura. Il capro espiatorio di solito non è un individuo, bensì una categoria di persone, giudicate in quanto tali radicalmente diverse, pericolose e inferiori. Una categoria da respingere o da eliminare, ogni volta rappresentata in primo luogo da chi è sentito come “straniero”.

Il fatto che governi e politiche populiste, con il loro intrinseco razzismo, si diffondano ovunque nel mondo dimostra quanto sia veloce il contagio dell’angoscia nevrotica nella sua versione persecutoria.

Una seconda versione dell’angoscia nevrotica produce la reazione depressiva, che porta all’inerzia, alla rassegnazione, alla disperazione politica. Si ha quando i popoli si lasciano ridurre a popolazioni senza coscienza, senza capacità di iniziativa, senza responsabilità. In tal caso quasi tutti credono che non si possa fare nulla. E allora, si fa finta di niente, si continua a fare quello che si è sempre fatto. È quanto accade oggi in rapporto alla devastazione ecologica del pianeta, che rappresenta una minaccia concreta e imminente di estinzione della specie umana. Eppure governi, collettività e singoli, salvo rare eccezioni, continuano a perseguire la “crescita” economica rifiutando di capire che tale tendenza è distruttiva per gli equilibri della natura e quindi per noi.

La stessa cosa accade con l’aggressione sistematica alla democrazia, che viene perpetrata nel silenzio e nell’inerzia di buona parte dell’umanità. Ciò attesta che la nostra è una società ad alta entropia, caratterizzata da una tendenza corrosiva che è l’esatto contrario della tendenza utopica.

Siamo dunque tra entropia e utopia. Ma l’utopia ha in sé una luce e un respiro in grado di evocare il riscatto dall’entropia. Si tratta non di un riferimento isolato, bensì di una costellazione di significati. L’utopia anzitutto è uno spirito che dà profondità alla nostra prospettiva sul tempo storico. È lo spirito che consente di guardare verso una trasfigurazione della realtà, per adesso non data e non visibile, che nondimeno preme per attuarsi e potrà effettivamente avere il suo luogo nella storia. Ha a che fare, non tanto con la fantasia proiettata verso l’irreale o con la futurologia che pretende di prevedere l’avvenire, quanto con l’immaginazione profetica e politica. Tale immaginazione “vede”, prima ancora che sia visibile, il bene che potrà essere. Infatti «abbiamo bisogno di vedere uno spazio storico prima di poterlo esplorare» e senza sguardo utopico non sapremmo realizzare il meglio di cui ci scopriamo capaci.

Avere il respiro dell’utopia è avere il senso della meta, saper aspirare alla riuscita della nostra speranza migliore, che è sempre la speranza per tutti, la speranza per la terra, la speranza di salvezza non piegata all’egoismo del mero “salvarsi l’anima”.

In un contesto epocale come quello attuale è indispensabile ritrovare lo spirito dell’utopia. Il che comporta di tornare ad ascoltare (o di scoprire) il desiderio più profondo che abbiamo nel cuore. Potremo sentire che è un desiderio di liberazione dal male e di comunione, un desiderio di vita sensata e salvata, proteso verso una felicità che è qualcosa di diverso dal privilegio, dalla fortuna o da un momento di gioia fugace.

La possibilità di risalire a questo desiderio è concreta perché esso è radicato nella persona che siamo, nella nostra stessa dignità.

La dignità umana infatti non è un valore formale, statico, inerte; come ogni vero valore è una forza in cerca del suo compimento, è come una promessa che tende al suo adempimento. In quanto singoli e come comunità siamo invitati a interpretare tale valore, a svolgerlo, a dotarlo di un mondo corrispondente. Chi lo dimentica o lo tradisce si mette in una condizione di dolorosa contraddizione con sé, in un equilibrio solo presunto, che in effetti sarà sempre instabile e falso.

Per questa ragione la dignità possiede una forza rivelativa e trasformativa irriducibile, che mai è stata sradicata dalla storia. Essa torna a riemergere per ispirare movimenti di liberazione che ogni volta tentano di dare attuazione non solo al valore dell’umano, ma anche a una società abitabile, pacifica, solidale e sostenibile, in armonia con la natura. I movimenti per la pace, per la dignità delle donne, per la giustizia sociale, per il superamento del razzismo, del classismo e del sessismo, come quelli per la tutela della natura e per la democrazia, sono espressioni della forza storica della dignità. Una forza che non è mai quella del potere, della propaganda o della violenza, poiché invece è la forza di una verità che senza coazione alcuna convince le coscienze a porci al suo servizio.

D’altra parte, l’utopia tende a prendere la forma di un progetto di vita, di società, di liberazione da quanto ci opprime. Non è affatto detto che il progetto si risolva in mera ideologia, poiché un vero progetto è così arioso da accogliere l’originalità, le speranze, le esperienze di molti senza omologarle e nel contempo è così orientativo da ispirare passi congruenti per la sua realizzazione senza cadere nell’equivocità e nella dispersione. Un progetto simile motiva singoli e gruppi ad assumere un atteggiamento di servizio, a collaborare, a cercare di essere fecondi.

La progettualità utopica è indispensabile per dare a chi è disposto a migliorare la società la forza dell’azione critico-euristica: è la capacità di giudicare e contestare ciò che è inaccettabile e di trovare vie nuove per costruire una realtà più adeguata. Qui il progetto esprime la visione che prefigura e anticipa la meta per cui vale la pena di impegnarsi. Quando manca tale visione ci si divide, si diventa settari, ci si chiude nella rassegnazione e nel conformismo. Quando invece la visione è davvero ispirata, autentica, interprete fedele della speranza umana universale, allora oltre alla meta sa individuare i passaggi di transizione, oltre all’orizzonte indica la strada che porta verso il traguardo.

In ciò l’azione dotata di intensità utopica è sempre responsabile, attenta al presente e alle conseguenze dei comportamenti. Non sacrifica ciò che è a ciò che sarà, non immola il presente sull’altare dell’avvenire, si ricorda dei valori già dati e da tutelare subito, non pensa solo ai valori che verranno.

Tuttavia, l’utopia è anche qualcosa di più radicale. Non è solo uno spirito, una sensibilità, un’intelligenza lungimirante, una capacità di immaginare il bene per adesso latente, un progetto.

Nel contempo l’utopia è un modo d’essere. Il mondo è un divenire che tra mille contraddizioni e regressioni non smette di essere un viaggio verso la propria trasfigurazione in comunione.

E l’essere umano è eminentemente una creatura utopica. Poiché non siamo già compiuti e chiusi nell’identità che abbiamo; siamo una domanda vivente, una tensione verso l’identità più vera, un viaggio di possibile nascita. Siamo futuro in atto: questa è la fragilità e la meraviglia del nostro essere aperto. Così siamo esposti al fallimento e a perdere la strada, siamo vulnerabili e capaci di soffrire, oltre che per i colpi che riceviamo, per le doglie e la fatica di questa gestazione. Mentre gli altri esseri sono ciò che sono – fin da subito o nel giro di poco tempo –, l’essere umano ha un processo di formazione molto lungo e non di rado si trova a mancare completamente la propria realizzazione. Può pervertirsi sino al limite del disumano e può trasfigurarsi sino alla piena umanizzazione.

L’essere umano è una creatura utopica perché non è ancora in pari con se stesso, non è uno ma due: è ciò che è e ciò che potrà essere; il suo vero luogo non è tutto nella sua situazione attuale ma va cercato nel futuro. Quel futuro che, però, è molto più che una quantità di tempo ulteriore, perché in realtà è futuro qualitativo, vita vera, bene concreto.

Roberto Mancini - Professore ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Macerata, dove ha ricoperto gli incarichi di presidente del Corso di Laurea in Filosofia e di Vice Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
È stato membro del Direttivo dell’Università per la Pace delle Marche, per la quale è responsabile della Scuola di Altra Economia. Dirige le collane “Orizzonte Filosofico” e “Tessiture di laicità” presso Cittadella Editrice di Assisi.
Collabora con il Centro Volontari per il Mondo di Ancona e con il Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza (CNCA).
Autore di numerosi volumi su filosofia, spiritualità, cristianesimo.