La cura della vita
la «piazza del mondo» di Trieste è simbolo della cura di ogni essere umano verso il suo prossimo
Questo articolo che racconta la storia di LORENA FORNASIR e GIAN ANDREA FRANCHI è frutto di un incontro che la coppia ha tenuto a Lucca il 3 dicembre u.s. e del libro di Massimo Orlandi La rivoluzione della cura. L’esperienza della piazza del mondo (Romena, 2024).
Non ci sono le mezze misure nel donare la vita, non per scelta ma per necessità: se accade o se decidi di lasciarti “fare ostaggio” dell’altro, non puoi che abbandonare le redini della tua vita, lasciare che l’altro ti porti dove non sai e lì restare per tutto il tempo che non sai. Dire che da dieci anni Lorena e Gian Andrea fanno delle loro esistenze, e della loro vita in comune, un quotidiano dono di cura rivolto a ragazzi migranti che per età potrebbero essere figli o nipoti, ma per condizione sono «corpi feriti e offesi» che «vivono nel nulla e di nulla, prede facili della preoccupazione per un futuro che ogni giorno rimanda a un eterno presente, fatto di notti passate in umide coperte e di giorni estenuanti alla ricerca di lavarsi, di andare in bagno, di mangiare», dire che questo dono quotidiano di cura si rinnova da dieci anni vuol dire ancora poco. In quel prendersi cura c’è ogni giorno un “tutto”, che traspare dai gesti del cuore di Lorena piegata ai piedi di giovani “cristi” – piedi che quella donna che ha superato i 70 anni ogni giorno lava, disinfetta, accarezza, unge di pomate, ricopre di garze sterili –, e che Gian Andrea traduce nel linguaggio della ragione cogliendone tutta la profondità di senso per l’umano e per la storia: che cosa possiamo fare davanti alle ingiustizie della storia? «Questi ragazzi che chiedono salvezza in realtà ce la portano», ci offrono l’occasione estrema di evitare il naufragio della speranza, la distruzione dell’umano, di ricostruire dal basso dignità e futuro.
Lorena e Gian Andrea sono diventati “voce” di una parola difficile da ascoltare, scomoda da accogliere, eppure gravida di vita e di gioia perché quando questi ragazzi arrivano, dopo un viaggio che ha sopportato l’insopportabile e superato l’inimmaginabile, depositano al loro scopetto sorrisi e gentilezza. E se è vero che «nei migranti la speranza si attiva grazie alla disperazione», è vero anche che ritornare ogni giorno in piazza ad incontrarli è un piccolo grande «furto di senso» che riverbera nel vuoto in cerca di presenza che abita Lorena, Gian Andrea e i tanti volontari di Linea d’ombra, l’organizzazione di volontariato fondata dai due coniugi per ragioni burocratiche più che per necessità ideali.
In questo “tutto” quotidiano colpiscono i numeri: ogni anno transitano nella che è stata ribattezzata “piazza del mondo” – la piazza Libertà di Trieste – oltre 16mila migranti, dei quali più di 3mila sono minorenni: per metà sono afghani, poi ci sono i pakistani, i curdi della Turchia, i bengalesi, gli iracheni, i siriani, i nepalesi, gli iraniani. Le donne sono appena il 4 per cento, e sono sempre madri, perché in quei paesi è pressoché impossibile che una donna possa decidere di partire in autonomia. Hanno percorso la rotta balcanica, attraversando Turchia, Grecia, Macedonia, Bulgaria, Serbia, Croazia e Slovenia prima di approdare in Italia, quale primo paese dell’Unione Europea che, spesso, è per loro soltanto suolo di transito verso Germania, Olanda, Nord Europa.
Percorrere la rotta balcanica significa entrare nel “game”, un gioco di sopravvivenza di 300 km quasi tutti in foresta, nel quale il pericolo maggiore è rappresentato dagli uomini che presidiano i confini, conoscono i sentieri più battuti, dispongono di droni e termorivelatori per andare a caccia di stranieri “clandestini”. Chi viene fermato, «viene rinchiuso per giorni in container sigillati, senza cibo né acqua né servizi igienici, privato di tutto, cellulari, soldi, vestiti, scarpe e rispedito indietro». E se non riusciamo a immaginare neppure lontanamente di attraversare la rotta balcanica una sola volta, c’è chi ci prova cinque, dieci, venti, anche trenta volte. Quelli che, stremati, affamati, deprivati di tutto, infine arrivano alla piazza del mondo sono i fortunati che ce l’hanno fatta. E se ultimamente il loro numero nella piazza è diminuito non è perché sono di meno coloro che partono, ma perché sono diminuiti quelli che ce la fanno.
«È normale che i confini siano controllati da uomini armati? È normale che passino merci e turisti, che i clandestini non passino o, se passano, rischino la vita? È normale che, se vengono catturati, siano sottoposti a punizioni dure, fino alla tortura?». Era il mese di ottobre del 2019 quando Lorena ha posto queste domande alla Corte europea per i diritti umani, con una lettera aperta che ha raccolto 70mila firme nella quale ha chiesto di «condannare con forza le violenze perpetrate dalle forze di polizia croata contro persone inermi» e di prendere in esame «il trattamento inumano e degradante, l’uso della tortura fisica e l’applicazione della tortura psicologica tramite minacce di morte». Un anno e mezzo dopo, il 6 aprile 2021, ha promosso la mobilitazione “Ponte di corpi”, cui hanno aderito 50 piazze in tutta Italia, per dire «con il nostro corpo di donne su un confine di morte che il migrante è portatore di vita». Perché «il confine è un delitto contro la vita, il confine riduce un essere umano a un pezzo di carta con il timbro di uno Stato. Chi non ha il timbro non può passare la frontiera, può essere battuto, ucciso, lasciato morire. Non è nessuno, non esiste. È un animale del bosco».
È un destino che non risparmia neppure i bambini.
C’è tanta coscienza e consapevolezza politica nei gesti umanitari di cura che Lorena e Gian Andrea compiono insieme a un collettivo di volontarie e volontari che vogliono «aprire una breccia nella cappa di indifferenza» che circonda il popolo dei migranti, assicurando loro un pasto, una coperta, una giacca, uno zaino per proseguire il viaggio. Perché la natura della piazza è la provvisorietà, uno scambio gratuito e immediato, incontrarsi e lasciarsi nello spazio di una sera. Una provvisorietà che non altera il carattere di “grande comunità della cura” che la piazza ha assunto nel tempo: nella piazza, infatti, «non si avverte soltanto l’odore acre della fatica e della sofferenza, ma anche il profumo di una comunità rinata, di una piccola utopia», che tenta di fare “resistenza” nei confronti della dolosa inerzia istituzionale, generatrice di una «emergenza artificialmente costruita» per esasperare i migranti e spingerli a lasciare l’Italia, per alimentare la tensione sociale facendo crescere il timore di una invasione, per creare un clima negativo nei confronti di chi pratica l’accoglienza.
Lorena è partita dai piedi dei migranti «perché sono l’espressione più diretta e più forte del loro viaggio, perché ne portano il peso e i dolori, perché mostrano i segni delle fatiche e delle violenze che hanno subito». Curarli vuol dire «avere cura di quel desiderio di trovare un posto dove vivere». Ma poi, mentre cura le ferite dei piedi, ogni tanto gli sguardi si incrociano e «avviene una sorta di riconoscimento reciproco. Tu esisti per me, non esisti per lo Stato, ma esisti per me».
I coniugi Franchi – Fornasir non sono credenti, ma – dice Lorena – «vedo questi ragazzi come dei cristi, dei cristi capaci di portare una croce davvero pesante, capaci di sostenere pesi incredibili. La loro domanda muta è la stessa che anche Cristo non ha saputo trattenere sulla croce: perché?».