di Nicola Colaianni in “la Repubblica” – Bari – del 21 aprile 2020
Il volto più affranto tra quelli dei vescovi che concelebravano la messa delle esequie sulla piazza della banchina del porto di Molfetta era quello di mons. Michele Mincuzzi. Lo aveva proposto e ordinato lui come vescovo della diocesi di Ugento, dove don Tonino faceva il parroco. E ora provava il dolore incommensurabile di un padre che vede, contro le leggi di natura, morire il figlio prima di lui. Ero in “missione” come deputato per portare un messaggio di condoglianze da parte dell’inter-gruppo dei parlamentari per la pace. Tutti in ginocchio davanti al profeta della pace che ancora pochi mesi prima nel pieno della malattia s’era recato a Sarajevo per implorare la pace e seminare la speranza anche in quel momento buio. “Non lasciatevi abbattere dalle difficoltà -– aveva scritto in un messaggio a Pax Christi e a tutto il popolo della pace – perché sul cammino della pace chissà quanti ostacoli incontrerete, quante incomprensioni. La pace è a caro prezzo, non costa poco”. Implica, infatti, aveva predicato altre volte don Tonino, la “convivialità”: cioè il «mangiare il pane insieme con gli altri, senza separarsi, mettersi a tavola tra persone diverse” e non, magari dopo essere andato diligentemente a messa, prendersi “solo il suo pane” e andare a “mangiarselo per conto suo”. Proprio perché quella visione di pace costa e implica il sacrificio personale di posizioni acquisite, in quella celebrazione il vescovo di Bari, Mariano Magrassi, sentì il bisogno di concludere il suo discorso con un incoraggiamento all’immensa platea di fedeli che affollava la piazza: “Facciamo in modo che non si disperda nell’aria solo per un istante, come il profumo effimero di un fiore, ma si scolpisca nel cuore. Per sempre. Sarà il modo migliore di ricordarlo”.
Il fiore continua a profumare. Il profumo è arrivato fino alla “fin del mundo”, visto che due anni fa un papa venuto da lì s’è recato appositamente in pellegrinaggio a quell’altro punto di “finis terrae” che è Alessano, e poi naturalmente a Molfetta. In quel suo coetaneo, morto già un quarto di secolo prima, Francesco ha ritrovato – sorprendentemente fino ad un certo punto: perché pur da terre lontane si erano formati entrambi con il Concilio – i temi della sua predicazione. Come non vedere la coincidenza tra la “Chiesa del grembiule, unico paramento sacerdotale registrato dal Vangelo, estroversa, protesa, non avviluppata dentro di sé, non in attesa di ricevere, ma di prestare pronto soccorso” di don Tonino e “la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia” di Francesco, per il quale “è inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto”. Entrambi sono per una Chiesa “contemplattiva”, come con il suo usuale gioco di parole – don Tonino era un vero funambolo della parola, aveva avuto questo dono da madre natura -, raddoppiando in questo caso una consonante, egli esprimeva una Chiesa animata dall’amore di Dio e, perciò appunto, appassionata per il volto dell’uomo, che rifletteva – come dice il Vangelo – quello di Dio. Uno dei giovani con cui una sera tornava dopo la cerimonia di elevazione di una chiesa di Molfetta per decreto pontificio a “basilica minore” gli chiese perchè “minore”. Don Tonino non lo sapeva, rimase un attimo interdetto poi subito rispose: “perché quella è di pietra, la basilica maggiore sei tu”.
Naturalmente, il volto privilegiato è quello dei poveri, dei disoccupati, dei senza casa, degli immigrati, che ospitava anche in episcopio. Era la “zona delle retrovie” (ancora una similitudine con la “chiesa delle periferie” di papa Francesco) della società del produttivismo: e infatti, attingendo con la disinvoltura dei santi al gergo calcistico, don Tonino diceva che i cristiani dovevano allenarsi ad una “marcatura a zona, nel cui ambito chiunque dovesse capitarvi dovrà sentirsi amorevolmente marcato a uomo da una presenza: la Chiesa”. Fossero i poveri “che vanno in divisa”, vestiti cioè da poveri, ma anche quelli vestiti bene ma con “un piccolo segno distintivo che li contraddistingue come tali”. E poi i malati. A tutti i ricoverati di oggi per la pandemia forse don Tonino riporterebbe la solidarietà di Gesù perché egli, stando sulla croce, è “il capo del nostro sindacato, il sindacato degli ammalati, dei sofferenti” e, quanto agli anziani, solleciterebbe i responsabili sanitari a fare attenzione perchè ospedali, Rsa ecc. non diventino degli “hangar dove sono convenuti in deposito i carrozzoni umani fuori uso”. Nel suo ultimo messaggio, registrato con i segni visibili lasciati dalla chemioterapia, incitava tutti gli uomini di buona volontà a “vivere in comunione con la gente, a scendere dai crinali delle emozioni e salire sui crinali della prassi, a sporcarsi le mani, a non stare alla finestra”. Questa singolare testimonianza di coniugare le utopie del Vangelo con i “sogni diurni” delle persone è ciò che di questo grande figlio della nostra terra oltrepassa gli anni e i confini.